Da scorciatoia per ridurre e comprimere i costi e condividere con altri (franchisee o lavoratori) il “rischio di impresa” a qualcosa di più strutturato e diffuso. Il ricorso al franchising nella GDO europea sale in cattedra e finisce sotto i riflettori. L’ultima in ordine di tempo è stata Delhaize in Belgio. 128 punti vendita, 9.200 dipendenti hanno appreso che i loro negozi sarebbero stati dati in franchising. Non l’hanno presa affatto bene. Ovviamente partirà presto un negoziato con il sindacato di categoria belga per definire tempi e capire le condizioni. Il franchising in tutta Europa, ad est come ad ovest, sta sostituendo la gestione diretta in molte realtà della Grande Distribuzione. Sia nel caso di nuove iniziative (vedi, ad esempio, il test di Potager City di Carrefour France) come nel coinvolgere punti vendita in fase calante o parti di rete in determinati territori.
L’espansione classica della GDO, quella a cui ci siamo abituati nel novecento si è, di fatto, conclusa. Circondati dalla concorrenza delle altre realtà e formati, cresciute come funghi, dalla spinta dei discount e dalla rete, le insegne, una dopo l’altra scoprono, e cercano di affrontare, i loro punti deboli concentrandosi innanzitutto sui costi. Di nuove sfide sul piano commerciale nemmeno l’ombra. Le grandi superfici e le realtà in pieno passaggio generazionale, ovviamente, scontano problemi strutturali più di altri. In mancanza di innovazioni particolarmente significative vince chi si adatta meglio al contesto. Le politiche commerciali (sconti, promozioni, iniziative varie) tutte uguali tra di loro, alla fine, sono a somma zero. Restano da rivisitare logistica, costi di sede, rapporti con i fornitori, organici (numeri e trattamenti definiti contrattualmente) e costi di locazione. Il franchising, per molti, rischia di essere un passaggio obbligato. Pur con tutti i rischi che comporta.
Quello che conosciamo oggi, è nato alla fine degli anni 20 del secolo scorso. In Francia presso il lanificio di Roubaix, e negli Stati Uniti con General Motors. Le origini sono addirittura nel Medioevo dove alcuni governi locali garantivano ai funzionari di alto livello una «licenza» per mantenere l’ordine e raccogliere le tasse. Il termine deriva da un’antica parola francese che significa “privilegio o concessione”. La “Franchise” era il diritto garantito da un signore locale a gestire un mercato o di cacciare sulle terre del signore stesso. Il vero e proprio “boom” del franchising avvenne però negli anni ’50 negli Stati Uniti con le oramai note catene di ristorazione e fast food dove un venditore di mixer per il «milk-shake» (Raymond Albert Kroc) scopri in California due fratelli (Dick e Mac Mc Donald) che utilizzavano nel loro ristorante una vera e propria «linea di assemblaggio» per i loro prodotti. In Italia la partenza documentata fu negli anni ’70 quando un’azienda di distribuzione, Gemma d.i., inauguro a Fiorenzuola quello che sarebbe stato il primo di 55 punti vendita a conduzione diretta e di una decina di punti vendita affiliati, dando così vita alla prima rete franchising italiana.
Il Rapporto Assofranchising Italia 2022 – Strutture, Tendenze e Scenari curato da Nomisma ci dice che il fatturato del settore si attesta a 28.867 milioni di euro con una crescita del 6,7% rispetto al 2020. Un incremento che, in parte, va a ripianare le perdite dovute alla pandemia. Andando a guardare i settori, è la GDO il più performante con un fatturato di 10.452 milioni di euro e una crescita del 2%, tenuto conto che vale il 36% dell’intero comparto, l’aumento assume un peso rilevante sul fatturato complessivo. Il vero vantaggio del franchisee è innanzitutto la conoscenza del territorio ma anche i costi di gestione. Il limite sul piano dell’insegna è che è difficile mantenere una identità specifica percepibile come tale dal consumatore.
Il principale franchisor della GDO in Italia parla francese. Il piano partito con l’arrivo nel nuovo CEO di Carrefour Cristophe Rabatel sta procedendo bene all’interno di un accordo sindacale che prevede momenti di verifica e di confronto. Senza quell’accordo diversi punti vendita sarebbero stati chiusi quindi la risposta al tema principale della difesa sostanziale dell’occupazione è andato nella giusta direzione. Difficile però pensare che il franchisee gestisca il PDV con le regole del gioco a cui era abituata l’insegna nel rapporto diretto.
Il punto è capire se è auspicabile un negoziato generale con il sindacato di categoria che salvaguardi la specificità del franchising, pur introducendo le tutele necessarie, oppure se occorra individuare nuove soluzioni sul costo e sulla gestione del personale valide per tutti. Altrimenti il solco tra chi si fa carico del rispetto dei contratti di lavoro e chi cerca altre vie si accentuerà inevitabilmente. Ad oggi, vale tutto e il suo contrario. E spesso, si assiste ad una deregulation eccessiva che in alcuni casi (fortunatamente non laddove c’è un’attenzione del franchisor o dove il franchisee è ben dimensionato) va ben oltre il semplice controllo dei costi. Dalla sostituzione del CCNL con contratti locali fino a cooperative spurie con forme di sfruttamento assolutamente inaccettabili. E questo crea una concorrenza sleale tra chi rispetta le regole e chi no.
Denunciare i comportamenti scorretti è fondamentale sottolineando che non è il franchising in sé il problema. Semmai lo è la sua degenerazione. Il punto vero è che la GDO è entrata in una fase molto più complessa del passato. Tra formati declinanti e da ripensare e altri che attraversano una fase di sviluppo è necessario individuare nuove traiettorie. Anche sul piano gestionale. Il suo ridisegno sia in termini di concentrazione che di innovazione possibile è ormai all’ordine del giorno.
Oggi non solo occorre riconsiderare gli accordi di filiera ma è necessario ripensare alle sovrapposizioni e alle duplicazioni delle sedi e della logistica, alla tecnologia di supporto. Alla distanza di tutto questo con il cliente finale. Così come alla gestione di ciò che caratterizza il coordinamento, la titolarità e l’organizzazione dei singoli punti vendita. Ciò che è core business e ciò che può essere affidato a terzi.
Tutti argomenti che hanno un impatto sul management, sull’occupazione, sulla qualità della stessa, sui profili richiesti, sull’adeguatezza e sulla modalità di corresponsione dei riconoscimenti economici. Se i rinnovi dei CCNL in corso non affronteranno anche questi temi, a parte la loro obsolescenza pratica, il rischio che ciascuna insegna, chi prima e chi dopo, tenderà a cercare le scorciatoie più in linea con le proprie urgenze economiche e lo sviluppo del proprio modello organizzativo. E questo non credo sia un bene per il comparto.