Pluvia defit, causa christiani sunt (manca la pioggia, la colpa è dei cristiani) diceva Sant’Agostino. La trasmissione “Presa Diretta” dedicata alla filiera agroalimentare aveva la necessità di basare la propria trama narrativa sull’individuazione di un facile capro espiatorio.
Gli ingredienti della storia c’erano tutti. I buoni (il mondo agricolo), i cattivi (la Grande distribuzione), il pentito (Giuseppe Caprotti). Il politico che quasi “giustifica” l’illegalità nei campi (Paolo de Castro) come reazione allo strapotere della GDO e l’insegna ingenua che pur accettando il confronto per provare a dimostrare la propria presunta diversità si è lasciata bacchettare in pubblico come uno scolaretto preso a copiare il compito dal compagno di banco (Coop). E infine chi, estraneo a questa contrapposizione, paga il conto: i lavoratori del comparto agricolo e i consumatori.
Trovo corretto, da spettatore, il tweet di Anita Lissona “Trattare in sequenza il tema delle aste al ribasso nei supermercati, peraltro già bandite dalla DMO seria, la stragrande maggioranza, e il fenomeno odioso del caporalato sa di tesi preconcetta e sminuisce il valore obiettivo di un servizio giornalistico.”
Questi i fatti, lo spettacolo confezionato e cucinato. Niente di nuovo sotto il sole. Tesi unilaterali, scorrette, manipolatorie che vengono però da lontano. Partono da un pregiudizio nei confronti di un comparto che, da parte sua, non ha mai voluto agire come tale. Ciascuno pensa al proprio albero. Non alla foresta che rischia di essere incendiata.
Agli spettatori più attenti non sarà sfuggito che nella filiera agroalimentare solo primario e terziario sono stati posti sotto la lente di ingrandimento della trasmissione. Gli altri anelli della catena apparivano sullo sfondo. Eppure lo scontro sul latte in Sardegna aveva anche altri protagonisti, così come quello sul pomodoro.
Ma in quei casi, come in altri, il comparto industriale, se attaccato, tende a reagire unitariamente. Non lascia la singola azienda in balìa degli eventi. Basta vedere la diatriba sui contratti nazionali scaduti dove Confindustria e Federalimentare non hanno lasciato sole le aziende associate nonostante la fuga in avanti di alcuni tra i marchi più forti su questioni di puro principio. Non certo e non solo per questioni economiche.
A mio parere questo è il punto. Le insegne, da sole, non hanno alcuna possibilità di difendersi sul piano dell’immagine perché le accuse si inseriscono in un mainstream consolidato e generico nella testa dell’opinione pubblica. O almeno di una parte consistente di essa. Non basta autoassolversi accusando il vicino di casa.
È compito delle associazioni di categoria scendere in campo, costruire lobby credibili, interagire con l’Europa dove Eurocommerce, la potente associazione di categoria, rappresenta le grandi multinazionali non certo gli interessi delle filiere nazionali. E quindi hanno buon gioco i detrattori del comparto o le associazioni del primario e del secondario a contrapporsi vigorosamente.
Occorre però costruire nuovi modelli associativi che puntino non solo sull’unità della categoria, oggi divisa in mille rivoli e tesa ad interpretare i polli di manzoniana memoria, ma anche ad un rapporto costruttivo nella filiera.
Trasmissioni cucinate a senso unico come “Presa diretta” non avrebbero spazio se ci fosse un associazionismo costruttivo in grado di parlare chiaro a nome di tutto il comparto, impegnato a garantire a ciascuno i propri margini e a rispettare il lavoro che occorre per realizzarli. Il settore ormai ha raggiunto la sua maturità.
Si deve dare delle regole nuove e poi garantirne il rispetto. E questo dovrebbe valere sia per i discount che per chi, dal web, gioca nello stesso campionato pur con regole diverse. Prendersela con trasmissioni pur faziose è purtroppo come abbaiare alla luna. Soprattutto servono uomini nuovi.
Esempi virtuosi nel comparto e tentativi di costruire percorsi diversi nella filiera ci sono già. Inutile citarli. Le insegne, tutte le insegne, devono capire che la velocità del contesto esterno sta aumentando di intensità ad un ritmo maggiore del contesto interno delle singole realtà. Il lockdown è stato un forte campanello d’allarme. Il settore ha svolto un ruolo sociale ed economico che però non ha saputo capitalizzare come tale. Occorre fare di più e farlo presto.
Alternative non ce ne sono.