Una delle ragioni per cui ho appoggiato fin da subito l’acquisizione di Auchan da parte di Conad è che la dimensione aziendale sarà sempre più un fattore decisivo per affrontare la transizione tra la GDO del 900 e quella che sta iniziando a intravedere nuovi perimetri di offerta e modalità di servizio. E questo cambiamento non sarà indolore.
C’è, ovviamente, chi resiste e presidia il suo modello di business ritenendolo vincente. Lo pensava anche il grosso negozio di macelleria del mio quartiere a Milano, il lattaio o il droghiere all’apparire del primo supermercato. La conoscenza dei clienti e del mercato, l’essere al centro di quella comunità li tranquillizzava. Poi è cambiato tutto e abbiamo visto come è andata a finire. Le stagioni cambiano. E, ogni stagione, ha i suoi frutti.
Quella che stiamo vivendo segnala che la transizione sarà comunque lunga. Molti passeranno la mano, altri saranno costretti a fare il salto necessario e trovare il modo di mettersi insieme per crescere. Il passo indietro di alcune multinazionali dal nostro mercato o il loro ridimensionamento, trae in inganno diversi osservatori. È sorprendente come molti ne sottovalutino alcune tra le ragioni più profonde. I meno arguti sembrano perfino soddisfatti.
“Italians do it better” quando non è una battuta, è la conclusione di approcci, a mio modesto parere semplicistici, che spiegano alcune delle ragioni delle difficoltà delle multinazionali nel leggere le specificità territoriali, di essere legate a centralizzazioni decisionali che rallentano o limitano i comportamenti nei singoli Paesi, di aver spedito, a presidio di un mercato oggettivamente complesso, manager spesso non all’altezza del compito. Tutti elementi presenti ma che, da soli, non sono sufficienti a spiegare la realtà.
Innanzitutto occorrerebbe evitare le generalizzazioni. Stiamo parlando di gruppi di dimensione internazionale e quindi parlare di nazionalità, utilizzando pregiudizi e non valutazioni oggettive e sostenute dai numeri è segno di estremo provincialismo. I “francesi” non esistono. Esiste Auchan e Carrefour. Così come i “tedeschi”. REWE e LIDL per fare due nomi, non sono la stessa cosa. Così come Conad e Vegé per restare in Italia.
Le responsabilità dovute ad un’approccio sbagliato al nostro mercato sono state sottolineate da tutti. Pochi hanno analizzato gli altri aspetti. Innanzitutto tutte le insegne che hanno lasciato il nostro Paese hanno investito altrove rilocalizzando e rifocalizzando i loro investimenti. Non comprendere che solo questo elemento è di per sé un fattore negativo per tutto il comparto sottolinea un approccio provinciale.
La competizione, la ricerca, la sperimentazione e la formazione manageriale solo per citare alcuni elementi delle dinamiche di un’impresa moderna, sono fattori determinanti che arricchiscono o impoveriscono un settore. Buona parte del management della GDO italiana oggi in grande spolvero viene quasi tutto da lì. Ed è soprattutto la grande impresa, multinazionale o nazionale che sia, a credere nell’importanza di quei fattori.
La GDO italiana è, purtroppo, uno dei comparti con i livelli di istruzione più bassi, minore formazione imprenditoriale e manageriale, pochi ingressi da fuori. In secondo luogo il contesto organizzativo. Se Carrefour cede al franchising è perché ha compreso che certe rigidità strutturali non sono affrontabili nel nostro Paese se non aggirandole.
Grandi aziende e multinazionali sono tenute al rispetto dei contratti nazionali firmati dalle organizzazioni più rappresentative che cubano un costo dal 15 al 25% in più rispetto a quelli, pur legittimi a legislazione attuale, applicati da molte imprese italiane a livello locale. Non è solo un problema di retribuzione che è sostanzialmente paragonabile.
Vale per l’inquadramento, il lavoro straordinario, le indennità, i contributi per la bilateralità, la quattordicesima, il riconoscimento del lavoro domenicale, l’utilizzo di part time e tempi determinato. E mi fermo qui. Costo del lavoro, numero di vertenze sindacali e legali, rapporti con i fornitori locali e con il contesto, cause civili, flessibilità operativa e organizzazione del lavoro, interlocuzione con il sindacato territoriale fanno una notevole differenza.
E spesso sono insegne locali che appartengono alle stesse associazioni di rappresentanza dei big del settore che conoscono benissimo la situazione ma sono le prime a chiudere, a volte un occhio, altre volte tutti e due. Ed è la somma che fa il totale. Quindi meglio cedere. Prima al sud e poi via via a salire.
Una delle ragioni che bloccano il rinnovo dei CCNL più importanti da oltre due anni è che le stesse associazioni non volendo affrontare le contraddizioni interne rinviano il negoziato appellandosi (pur con buone ragioni, sia chiaro) al difficile momento economico e i rischi di ripresa dell’inflazione.
E, ultimo ma non ultimo, i motivi del ritiro sono diversi per ciascuna insegna. REWE poco prima di lasciare ha cercato addirittura di acquisire Esselunga. L’idea di non poter competere per poter raggiungere in tempi ragionevoli una posizione di leadership ha contribuito a spingere la casa madre ad investire altrove. E, questo importante elemento, si somma agli altri.
Auchan è una grande azienda francese che ha mantenuto un profilo familistico e che ha progettato con grande lungimiranza la sua “fuga” sapendo che la parte più superficiale del settore (compresa parte della stampa) si sarebbe concentrata sulle responsabilità dei nuovi arrivati (il classico dito al posto della luna) consentendo a loro e al management locale, altrettanto responsabile, di salvarsi la coscienza. Altra cosa Auchan rispetto ad una multinazionale strutturata come Carrefour.
Quest’ultima ha capito che per ripartire occorre muoversi con le regole del gioco del Paese. Da qui il passaggio a terzi e il taglio dei PDV. Addebitare a Cristophe Rabatel le gestioni passate è un errore. Lui semmai deve rimediarne le conseguenze. I manager con le sue caratteristiche professionali arrivano proprio quando la macchina deve essere rimessa sui binari prima che l’operazione diventi impossibile. Questa scelta segnala due aspetti. Che Carrefour crede fermamente nel risanamento ma che non si fermerà davanti a nulla perché scorciatoie e rassicurazioni formali non servono più. E di parole i manager di quell’azienda (francesi o italiani che fossero) che si sono succeduti negli anni ne hanno già dette troppe.
La stessa strategia di cessione a terzi è stata, tra l’altro, adottata recentemente anche in Francia. Terziarizzare ciò che non ha più costi comprimibili per spostare parte del rischio di impresa, ripensare gli ipermercati riducendone le superfici, investire sull’innovazione, riposizionare l’intero gruppo. È un sistema complesso che cerca di adattarsi al contesto esterno. E non credo finirà qui. Né con questo ultimo piano presentato ai sindacati.
Tra l’ altro formati, dimensionamenti, contenuti e modelli vanno ripensati perché le scelte di oggi, visti i tempi di implementazione in Italia, definiscono i perimetri dei prossimi dieci anni e dovranno accompagnare l’evoluzione del settore. Se alcune multinazionali se ne vanno, altre però arrivano.
Nell’horeca, nell’ultimo miglio, nei centri commerciali. Per non parlare dei giganti della rete. Ritorneranno anche nella GDO perché le nostre insegne, salvo le più lungimiranti, non sono in grado, per gelosie e limiti manageriali, di mettere a fattor comune risorse e punti forti. E sono appetibili. Soprattutto quelle intorno al miliardo di euro di fatturato. Questo è il punto su cui occorrerebbe riflettere sul serio.