A Verona Ikea getta la spugna. Le traversie burocratiche a cui è stata costretta in tutti questi anni stanno forse coprendo le ragioni che già spingevano alla cautela il management sulle nuove aperture con il vecchio format.
Ikea ha i suoi problemi di crescita. Sembra evidente che il vecchio modello di business non può più funzionare a lungo in Paesi come il nostro. Va cambiato e va fatto velocemente e in profondità. Il CEO Brodin ha deciso, in questi mercati, di privilegiare formati più piccoli, i cosiddetti Pop-Up Store, da dislocare nei centri urbani. Cucine innanzitutto. Ma non solo.
IKEA ha capito quanto può essere esposto il suo business con Amazon e altri potenziali concorrenti quindi vuole puntare su nuovi format, sulle vendite online e riprogettare la sua logistica prevedendo consegne h 24×7. E rafforzarsi nell’alimentare dove già oggi esibisce numeri di tutto rispetto. IKEA, però, non deve temere solo Amazon.
In italia, Mondo Convenienza è leader di mercato, e supera Il colosso svedese nelle vendite di mobili già da qualche anno partendo da un’azienda famigliare. Da Civitavecchia a leader nazionale seguendo l’evoluzione del mercato del mobile. Più o meno negli stessi anni di insediamento di IKEA in Italia. Dai tempi di Romano Petretti e Giorgio Aiazzone, entrambi scomparsi troppo presto, il mercato è cambiato profondamente. Carosi, leader di Mondo Convenienza, dei tre è l’ultimo rimasto ma lo ha capito per tempo.
A Corsico, un piccolo comune dell’hinterland milanese, fino a pochi anni fa Il colosso svedese viveva indisturbato. Oggi altre 7 imprese con grandi superfici l’hanno circondata a pochi metri di distanza con proposte competitive e di altrettanta qualità. Forte ancora nell’accessoristica e nell’alimentare, IKEA soffre sui mobili. Proprio su quello che ha rappresentato fino ad oggi il suo core business.
E non è la sola multinazionale che soffre nel retail. Auchan e Carrefour nel food sono le eterne malate. Hanno insistito forse troppo a lungo sugli ipermercati, un format ormai in declino, tant’è che oggi stentano a ripensare una strategia credibile. Il colosso tedesco Rewe dopo un impegno di oltre dieci anni ha preferito, addirittura, lasciare il campo e ripiegare in Germania e in Austria guardando a Est dove il modello tradizionale funziona ancora. L’Italia ha rappresentato per tutti loro un problema serio fin da subito.
Soprattutto perché anche nel food le aziende italiane (Conad, Esselunga, Vegè e Unes) tengono botta alla grande. Il mercato è sostanzialmente stabile quindi la qualità dei giocatori in campo è fondamentale. Le quattro citate ad esempio hanno un management di qualità, coeso, forte e motivato anche sul piano etico. Sono aziende legate al territorio dove sono insediate, rispettano i consumatori, investono sulla qualità anche del personale. Se costrette a chiudere filiali cercano di evitare contrapposizioni inutili con i sindacati.
Le multinazionali di cui sopra possono dire lo stesso? Nei discount dove le aziende tedesche rappresentano da sempre il top esistono competitor nazionali tutt’altro che rassegnati a ruoli da comprimari come Eurospin o MD. Certo resta l’eccezione di Coop che ha i suoi problemi ma in questo caso sarebbe semplicistico indicare nel solo formato la causa della crisi. Ci sono altre ragioni che meritano un approfondimento in altra sede.
L’essere stati pensati in un’altro contesto economico e sociale è un handicap che però non deve trasformarsi in una scusa. Il cambiamento lamentato non è avvenuto in una notte. C’è stata forse una volontà di presidio ossessivo del territorio teso più a bruciare il terreno alla concorrenza che non ha funzionato.
Non ha vinto sempre il migliore. Ha vinto il più bravo a costruire rapporti con le amministrazioni locali. Ha fruttato nel breve/medio e penalizzato nel lungo periodo. Tutti sono usciti un po’ ammaccati dalla crisi e vivono le libertà di movimento di cui godono giganti della rete con grande preoccupazione.
I retailer francesi hanno aspettato, invano, idee e soluzioni dai rispettivi quartier generali. Pur con motivazioni diverse, hanno perso tempo insistendo su di un modello in parte superato ma sempre convinti di avere la forza per poter mettere in un angolo la concorrenza. La “grandeur” francese non ha funzionato.
Ed è il motivo per cui IKEA morde il freno e accelera sul cambiamento necessario. Perché le aziende italiane, pur vivendo sostanzialmente gli stessi problemi, reagiscono diversamente? Credo ci sia, innanzitutto, un problema di conoscenza del territorio e del mercato, di risorse umane, stabilità, valore e autonomia del management che si traduce in strategie credibili, innovazioni, sperimentazioni e rapidità di decisione. Il middle management si sente coperto, valutato e incentivato. Non solo giudicato.
Il punto vendita è l’immagine dell’azienda. Non è solo un problema di convenienza o di qualità dei prodotti. E’ un problema di clima interno, di passione di integrazione con il contesto esterno. Certo nessuna azienda italiana sta giocando la partita con la rete globale e con la vera innovazione necessaria. Purtroppo. Non ci sono le risorse economiche sufficienti neanche per le più grandi. Qui forse sta il punto vero. E adesso si muovono anche le imprese del food delivery, Occorrerebbe fare qualcosa di più e farlo insieme. E questo, tra l’altro sarebbe il compito e la ragion d’essere di un nuovo modello associativo che aiuta concretamente le imprese a traghettare la transizione verso nuovi modelli superando le vecchie logiche difensivistiche del 900 ormai desuete e le idee che transitano solo nei convegni. Filiera e innovazione sono le nuove sfide. Impossibile vincerle da soli.
Terreno difficile per storia e concorrenza tra insegne. I grandi vecchi della GDO si sono combattuti ferocemente pensando di vincere ciascuno a modo suo, e così, alla fine pur vincendo molte battaglie rischiano di perdere la guerra. Ogni insegna oggi fa quello che può. Se la torta resta ferma, o addirittura si contrae, l’obiettivo resta comunque quello di tenere o aumentare la rispettiva fetta. In questo gli italiani sembrano essere più bravi. Non è il massimo però la differenza c’è.
Chiunque frequenti le filiali delle imprese italiane trova un senso di appartenenza, una cultura del prodotto e del servizio diversa che altrove. Forse per altri il servizio offerto è parte del comportamento organizzativo richiesto. Che alla fine sembra più che altro imposto. Nelle imprese italiane c’è forse qualcosa di più. Almeno a me pare notarlo quando giro per punti vendita. Gli italiani sembra lo sappiano fare meglio. Sempre che non decidano, una volta raggiunto l’obiettivo, di cedere il passo.