In tutta la grande distribuzione in Italia non ci sono più di settecento manager con la qualifica di dirigente. L’ossatura portante delle imprese è costituita ormai da tempo da un’altra altrettanto importante figura professionale: i quadri. Se togliamo i top manager e poco altro non c’è molta differenza concreta tra le due categorie.
Negli ultimi quindici anni c’è stato un depauperamento evidente di responsabilità e di ruolo del dirigente e questo ha reso ancora meno marcate le differenze. E, contemporaneamente ha reso più conveniente per molte imprese inserire quadri in ruoli che prima erano ritenuti dirigenziali. Nell’ultimo periodo sembra esserci una modesta inversione di tendenza nel terziario di mercato ma non nella GDO. Anzi.
I Contratti nazionali continuano a tenerli rigidamente separati. I primi hanno un loro contratto specifico, i secondi, per storia e tradizione costituiscono la parte apicale dell’inquadramento unico. Sono però gli aggettivi a fare ancora la differenza. Il quadro, nei testi contrattuali, ha funzioni di “notevole” importanza e autonomia, il dirigente ha “ampi” poteri e “rilevante” autonomia. Così almeno è scritto.
In azienda, nel quotidiano, è un altro film. Sono due popolazioni che, al loro interno, presentano sfaccettature e responsabilità ormai difficili da separare nettamente. Se non fosse per il welfare contrattuale, le differenze, nelle aziende del terziario, sarebbero minime. Il Quadro ha a disposizione Quas per l’assistenza sanitaria, Quadrifor e Forte per la formazione e Fonte per la previdenza, il dirigente ha a disposizione FASDAC per l’assistenza sanitaria, Mario Negri e fondo Pastore per la previdenza e Cfmt e Fondir per la formazione. Welfare più costoso per l’azienda e il dirigente, certo, ma di altro livello per questi ultimi.
I quadri sono stati riconosciuti formalmente come categoria a se stante solo dalla Legge n. 190/1985. È però difficile trovare imprese che separano in modo netto queste due categorie anche perché in azienda si gestiscono risorse, team, progetti, obiettivi e quindi persone, non categorie contrattuali. I piani di crescita e sviluppo, le carriere, il coinvolgimento, quando ci sono, riguardano l’intera popolazione manageriale indipendentemente dall’inquadramento professionale.
In Francia, il termine “Cadre” si è affermato con maggiore forza e ha una sua dignità specifica. Da noi, no. È un termine polisemico. Ha una sola etimologia (quadro deriva da quadrus, quadrato in latino). In altri Paesi esiste un contratto nazionale specifico trasversale che ne definisce perimetro e confini. E ne stabilisce varietà, ruolo e responsabilità. Da noi, sono le singole aziende a definirne il perimetro professionale le responsabilità, il tempo e al qualità del lavoro.
Il sindacato, da parte sua, li blandisce e, a volte, li ascolta per spingerli ad una scelta di campo. Meno quando i quadri vorrebbero avere voce specifica sulle proprie peculiarità nei contratti nazionali e aziendali. O nelle ristrutturazioni come nel caso, oggi sotto i riflettori, di Conad/Auchan dove si trovano nel ruolo scomodo di essere trattati in modo uguale in una fase cruciale pur essendo professionalmente diversi all’interno di un contratto nazionale zeppo di figure massificate. Ciascuna con le sue buone ragioni.
La fine del “Taylorismo” culturale e contrattuale forse li rilancerà e gli restituirà un perimetro e un ruolo maggiormente definiti. Oggi però non è così. Nelle ristrutturazioni di solito pagano pegno. Il sindacato che difende il perimetro contrattuale tradizionale non li considera diversi né portatori di specificità da salvaguardare con particolare attenzione nel negoziato. Lo stesso vale per il sindacato dei dirigenti animato da un “vorrei ma non posso” comprensibile dettato dal rischio di conflittualità con gli altri sindacati.
Il resto dei lavoratori con cui dovrebbero condividerne il destino li guarda con sospetto. Sono capi, professional, responsabili di settore o di punto vendita. Spesso in contrasto professionale con loro e quindi non sempre visti come appartenenti alla stessa parte. Eppure rappresentano un presidio fondamentale per i valori e la gestione dell’azienda stessa. Se buyer a volte sono sotto ingiusto attacco da fornitori spregiudicati. e da osservatori superficiali. La loro intransigenza negoziale gli viene rivolta ingiustamente contro. Oppure sono ritenuti di altra scuola dai nuovi arrivati e quindi difficilmente integrabili anche se non è vero.
Con i dirigenti condividono la difficoltà di ricollocamento a parità di condizioni. Il mercato è avaro di possibilità soprattutto per chi proviene da scuole manageriali ritenute storicamente chiuse in sé stesse. E magari propone persone vicino o superiori ai cinquant’anni. Nelle procedure e nei negoziati che ne determinano le priorità vengono sempre dopo. Nelle ultime ore dei 75 giorni della procedura. E spesso vengono ingiustamente schiacciati verso il basso.
Questo crea, purtroppo, un paradosso. Prigionieri di un negoziato che rischia di non tutelarli a sufficienza ma impossibilitati ad affidarsi a chi potrebbe mettere in campo una esperienza specifica come è il caso di Manageritalia nel terziario. Nel sindacato confederale la maggiore sensibilità messa in campo su questa specificità di ruolo è sempre stata più della CISL e della UIL che della CGIL. Non credo di svelare segreti.
In caso di impossibilità di “repechage” interno le strade da esplorare nel negoziato riguardano i tempi di uscita, l’’importo dell’incentivo all’esodo che non può essere scollegato dalla retribuzione percepita e un sostegno concreto e professionale al ricollocamento esterno. Ma soprattutto potrebbe essere messo a fattor comune (non solo per i quadri) il pacchetto di misure allo studio del Ministero del lavoro collegate alla crisi ILVA.
Non si tratta di creare nicchie di “privilegio” in un momento di difficoltà di prospettiva che riguarda l’insieme dei lavoratori della sede e della rete ma al contrario di consentire una gestione corretta delle traiettorie di carriera di ciascuno. E questo è un dovere di cui entrambe le parti al tavolo dovrebbero farsene carico.
Ho vissuto tutto ciò sulla mia pelle, non so quanto sia vero che ci sia una inversione di tendenza. Né quanto incida il sesso sulla decisione di attribuire o meno una dirigenza. Ma sono convinta che questo declassamento delle figure sia stato anche determinato dalle società di recruitment.