Se parliamo di condizioni di lavoro e retribuzione globale, nella grande distribuzione sono ormai sostanzialmente solo due le aziende nelle quali convive, con il contratto nazionale, una significativa contrattazione aziendale. La prima grazie ai suoi risultati, la seconda nonostante i suoi risultati.
Non è un caso che la prima è la più performante del comparto (Esselunga) e la seconda, la più “sociale” (Coop). Esselunga, guidata da Bernardo Caprotti, ha sempre tirato dritto negli anni della sua espansione scegliendo un rapporto estremamente ruvido e formale con i sindacati interni ed esterni. La seconda, ha puntato, al contrario, per storia e tradizione, su un rapporto privilegiato con il sindacato di categoria. Soprattutto con un sindacato in particolare.
Meritocrazia, disciplina, riconoscimento dell’impegno individuale hanno caratterizzato Esselunga. Gestione politica, coerenza sociale con la propria immagine, visione lasca dell’organizzazione e riconoscimento dell’impegno collettivo, i punti di forza di Coop.
L’intero sindacato di categoria e quindi il concetto stesso di contrattazione aziendale “old style” sono però visti dalla stragrande maggioranza delle imprese come un problema da superare. Le scelte nel tempo sono state altre. Revisione o eliminazione della stessa contrattazione aziendale, “scambi” tattici con i sindacati per incrementare la produttività o ringiovanire l’organico, downsizing dell’inquadramento professionale nei punti vendita ai livelli medio alti, ricorso massiccio al cosiddetto part time “involontario”.
La difesa dei fatturati e dei margini, l’aumento, comunque realizzato dell’occupazione, i progetti di formazione e di sviluppo professionale interni, hanno assegnato un ruolo sostanzialmente marginale alle organizzazioni sindacali ormai da tempo. La stessa presenza di quattro contratti nazionali in dumping tra di loro e firmati dalle stesse organizzazioni confederali sommati ad una pletora di contratti pirata (applicati anche nella GDO soprattutto al sud) sono lì a dimostrare che sul costo del lavoro si sono concentrati gran parte degli sforzi di contenimento dei costi delle aziende del settore che viaggia oggi dal 9% al 17% medio a seconda dell’insegna.
L’assenteismo è sotto controllo quasi dappertutto anche grazie all’utilizzo dei TD e alle norme contrattualmente definite, quindi gli organici sono distribuiti correttamente sui nastri orari giornalieri e settimanali. Domeniche e festività compresi. Da qui il rischio occupazionale, ad esempio, in presenza di interventi regolatori non programmati per tempo.
Aggiungo che nonostante la presenza di più contratti nazionali in dumping tra di loro, la contrattazione cosiddetta “pirata” è decisamente aumentata mettendo in discussione tre punti importanti. Il salario e il relativo inquadramento professionale che li posiziona almeno 7 punti percentuali sotto i costi ufficiali, la quattordicesima che non viene quasi mai prevista e il welfare contrattuale che, in quei contratti, praticamente non esiste.
E questo segnala che in una sconsiderata quanto probabile prossima ripresa della gara al ribasso tra i quattro contratti principali, alla fine, l’intera rappresentanza tradizionale è destinata a perdere peso e ruolo comunque impossibilitata a contrastare i contratti pirata in mancanza di una certificazione della rappresentanza. Soprattutto sui temi che dovrebbero vedere protagonisti sia la parte datoriale che sindacale.
La vicenda Conad/Auchan ha inoltre aperto la nuova fase delle ristrutturazioni su larga scala del settore. Come è già avvenuto in tempi più lontani nel comparto industriale. Non la semplice chiusura di singoli punti vendita, la relativa mobilità interna e i pensionamenti attraverso uscite più o meno “spintanee”. Oppure i cambi di insegna seguiti a cessioni a parità di organico e di salario.
Nei processi complessi cambiano la governance, le prospettive e la gestione delle conseguenze. La dimostrazione del cambio di passo improvviso è nella reazione avuta da una parte del sindacato di categoria e di chi, tra gli osservatori di settore, si è voluto misurare con problematiche fuori dalle proprie competenze professionali. Ma anche dalla difficoltà delle organizzazioni di rappresentanza datoriale di comprendere la necessità di interpretare un ruolo nuovo in questi processi che stanno cambiando il volto del comparto. E tutto questo dimostra che gli strumenti a disposizione delle parti sociali non sono più sufficienti per gestire le conseguenze rapportate alla dimensione di queste riorganizzazioni.
Quando si faranno i conti finali dell’operazione Conad/Auchan le difficoltà incontrate emergeranno nella loro evidenza pur mettendo in luce sia l’impegno messo in campo che le problematiche organizzative, economiche e sociali incontrate da chi è subentrato in un’operazione di queste dimensioni e al netto delle conseguenze del lockdown.
Per gestire fasi così complesse non solo servirebbe una grande unità e visione (come è stato a suo tempo nell’industria) dell’intera GDO oggi distribuita in associazioni in concorrenza tra di loro ma occorrerebbe che questa visione, pur nel rispetto dei ruoli, comprenda anche l’intero sindacato di categoria.
Capisco le diffidenze reciproche ma oggi, proprio sulla base dell’esperienza fatta, occorrerebbe affrettarsi e cominciare a scrivere una pagina nuova prima che sia troppo tardi. E i rinnovi contrattuali, se colti nel loro potenziale innovativo, si dovrebbero trasformare in un appuntamento decisivo, propedeutico anche ad un rapporto diverso con le istituzioni. Serve una visione comune che oggi non c’è ancora.
Chi pensa che Conad poteva agire in modo sostanzialmente differente con i pochi strumenti a disposizione non ha capito nulla del contesto e di ciò che aspetta il comparto negli anni di vigenza del prossimo CCNL. Così come chi pensa che le grandi ristrutturazioni che attendono il settore possano evitare pesanti contraccolpi occupazionali.
È evidente però che la mancanza di strumenti di politiche attive almeno settoriali, della possibilità di utilizzo della formazione in CIG e di piani di outplacement individuale e collettivo così come nella flessibilità applicativa nei costi e nei tempi di ripartenza, hanno comunque pesato in quell’operazione e peseranno anche altrove. Senza dimenticare la mancanza di riferimenti concreti di coinvolgimento, condivisione obiettivi e loro riconoscimento.
Quindi il problema fondamentale all’ordine del giorno non è certo come farsi concorrenza sul costo del lavoro tra associazioni datoriali nei prossimi rinnovi contrattuali ma, al contrario, dotarsi di una visione comune di medio/lungo periodo. E per questo occorre una decisa assunzione di responsabilità e una condivisione delle singole insegne.