Grande Distribuzione. Le domeniche tra inutili proclami e soluzioni da trovare

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Questo è, purtroppo, il tempo dei rispettivi proclami e delle prese di posizione senza se e senza ma. Da un lato chi, come il Governo, vuole azzerare il lavoro festivo e domenicale e, dall’altro chi, rivendicando a buon diritto la libertà di impresa, vorrebbe lasciare tutto com’è.

Tre soggetti in campo apparentemente con esigenze opposte. Innanzitutto i dodici milioni di consumatori ormai abituati a  frequentare i punti vendita la domenica. Gli abolizionisti la fanno semplice.

Basterebbe, secondo loro, distribuire gli acquisti negli altri giorni della settimana. Ovviamente nessuno prende in considerazione i differenti format distributivi, la loro collocazione sul territorio, le merceologie proposte. Per gli abolizionisti un supermercato di vicinato piuttosto che un centro commerciale a 20 chilometri dalla abitazione del consumatore sono la stessa cosa, così come le insegne e sono frequentabili in qualsiasi giorno della settimana allo stesso modo. Dopo una giornata di lavoro, o prima. Magari anziché fare jogging. O in pausa pranzo lasciando in auto la spesa…

Così come gli outlet, che pur non essendo ubicati in Comuni turistici, magari vengono frequentati da oltre il 60% da stranieri portati sul posto la domenica dopo aver visitato una città d’arte ad oltre 50 chilometri di distanza. 

A seguire gli occupati sia a tempo indeterminato che a tempo determinato. Per gli abolizionisti chiudere la domenica non dovrebbe comportare  nessuna conseguenze sull’occupazione perché i dipendenti potranno tranquillamente essere  redistribuiti sugli altri giorni. Così come gli acquisti.

Questo può valere  per alcune merceologie ma comunque l’organico necessario per le aperture, il lavoro nei magazzini di distribuzione, il caricamento scaffali, il servizio e tutto l’indotto cambia considerevolmente con o senza l’aperture domenicale. Anche nei supermercati di vicinato.

Così come la perdita del secondo fatturato della settimana (la domenica)  potrebbe avere un peso con conseguenze ben più gravi per l’occupazione anche per gli altri format (centri commerciali, outlet e ipermercati) la cui redditività complessiva verrebbe messa in discussione. Soprattutto laddove la concorrenza tra insegne sul territorio è ridondante e quindi spietata.

E a questo andrebbero aggiunti le realtà in  franchising presente nei centri e tutti i lavori di contorno (bar, intrattenimenti vari, ristoranti, pulizie, guardianie, ecc.). Decine di migliaia di persone che rischierebbero il loro lavoro o, se imprenditori,  lo troverebbero ridimensionato in termini di fatturato. Ultimo ma non ultimo  il danno per le imprese del settore. Alimentari e non alimentari.

E questo in pieno rallentamento dei consumi e in una fase di forte crescita dell’ecommerce. Il danno, tra l’altro, non sarebbe distribuito allo stesso modo per le diverse insegne. Nell’alimentare sarebbero sicuramente avvantaggiati gli hard discount per la loro struttura organizzativa  e le realtà  che hanno potuto godere, negli anni, di ubicazioni migliori e di intrinseca forza dell’insegna stessa.

La stessa idea di decidere centralmente le chiusure e trasferire a livello locale le possibili deroghe rischia di trasformarsi in un boomerang incontrollabile che favorirà alcuni e penalizzerà altri. Come è successo in passato. Figuriamoci quando si tratterà di definire cos’è turistico e cosa non lo è o come muoversi in termini autorizzativi per una piccola amministrazione locale che si troverà assediata da dipendenti inferociti, mediatori e faccendieri di ogni tipo.

E’ chiaro a tutti che un’accordo va trovato.

Per farlo occorre impostare un negoziato serio che dovrebbe vedere  coinvolti i rappresentanti di tutti i soggetti in campo. Come nella vicenda ILVA il Governo deve ascoltare tutti gli interessi coinvolti. Innanzitutto i consumatori attraverso  le loro associazioni più rappresentative.

In secondo luogo i sindacati del comparto. Certo oggi hanno il dente avvelenato con le imprese della GDO che sono senza contratto nazionale e per le scorrettezze che alcune di loro hanno compiuto in termini di riconoscimento economico delle giornate festive, “spintaneità” della prestazione e superamento della contrattazione aziendale. Non credo che però sia loro interesse lasciare decine di migliaia di lavoratori in balia delle decisioni del Governo e restare in panchina tifando per l’arbitro.

Infine le associazioni e le federazioni datoriali. Alcune faranno melina per poter poi accusare quelle più favorevoli ad un’intesa complessiva. Altre si predisporranno per le cause. Le principali però dovrebbero riflettere. Innanzitutto su cosa ha portato il protagonismo e la divisione in mille rivoli organizzativi del comparto.

Lo slogan: “stesso mercato stesse regole” deve essere il punto di incontro tra tutti i soggetti coinvolti. Vale per l’ecommerce ma anche per il rapporto grandi vs. piccoli. Ma non può escludere la giusta retribuzione dei lavoratori, i sistemi di rotazione e le incentivazioni adeguate.

Alcune aziende della GDO, e qui va detto, hanno tirato troppo la corda. Verso i fornitori e verso i lavoratori. Adesso la corda rischia di spezzarsi e danneggiare, così, buoni e cattivi.

Verrà il giorno dove occorrerà rileggere la storia e i comportamenti di associazioni, federazioni, gruppi, singole imprese e sindacati. E di quanto questi comportamenti hanno contribuito a mettere tutti davanti al baratro dove siamo oggi fatto di buone ragioni di ciascuno ma anche  di rancori e inevitabili accuse e contro accuse reciproche. Però non è questo il giorno.

Oggi occorre lavorare per far comprendere al Governo l’importanza di un settore economico, le sue buone ragioni ma  anche la sua disponibilità a trovare mediazioni e soluzioni nell’interesse di tutte le parti in causa.

Prima che sia troppo tardi.

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