Grande Distribuzione. Le retribuzioni non sono tutte uguali…

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Mentre Governo e opposizione si confrontano a distanza sulla necessità o meno di introdurre il salario minimo legale, il costo del lavoro resta una delle principali voci di attenzione delle insegne della GDO e del comparto del commercio in generale. Il mancato rinnovo del CCNL scaduto nel 2019  è anche figlio di questo problema. Indipendentemente dalla direzione che si vorrà prendere esistono problematiche complesse nel comparto che imporrebbero una valutazione a tutto campo sui contratti nazionali, sulla loro effettiva copertura,  sulla loro attualità, sulla rappresentatività di chi li rinnova e sul loro costo. Sia riferito al cosiddetto “minimo tabellare” che è, di fatto un salario minimo ante litteram, applicato a milioni di lavoratori, che a tutto il resto, trascinamenti compresi.

Le insegne (almeno le più serie) non vogliono certo penalizzare i propri lavoratori. Nello stesso tempo non vogliono trovarsi caricate di eccessivi costi diretti e indiretti. Senza contropartite in grado di bilanciarne gli effetti e i trascinamenti il rinnovo, pur dovuto, rappresenterebbe  un sollievo per i singoli lavoratori in tempo di inflazione ma anche un costo complessivo  che si somma a tutta una serie di limiti oggettivi che impediscono recuperi a causa di un testo che ha fatto abbondantemente il suo tempo e che occorrerebbe riscrivere ex novo. Purtroppo questa mancanza di consapevolezza dell’inadeguatezza dello strumento, i suoi costi indiretti o  “nascosti”  che trascina senza alcun vantaggio per entrambe le parti, contribuiscono a creare una  situazione complessa  che andrebbe affrontata con tutt’altra visione.

Questa rigidità delle insegne nei confronti del regolatore nazionale non significa, però, che le imprese non abbiano una attenta gestione del proprio personale e loro precise politiche retributive. O che tutte si comportino allo stesso modo. Ovviamente non c’è solo l’aspetto economico ma se un giorno, anziché di bilanci, promozioni  o vendite al m2,  si decidesse di pubblicare la classifica delle retribuzioni nella GDO le due imprese top sugli aspetti salariali legati ai dipendenti inquadrati  nei contratti nazionali scaduti vedrebbero ai primi due posti gli eterni avversari  Coop ed Esselunga.

La prima è  la più rispettosa in assoluto dei contenuti  del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La seconda, meno disponibile sul versante dei rapporti con il sindacato ma con retribuzioni altrettanto significative. In aggiunta vanta le migliori retribuzioni per  quadri e dirigenti rispetto al sistema Coop. Esselunga ha poi una sua politica retributiva discrezionale, nettamente migliorativa del CCNL rivolta alle sue figure chiave.

Un gradino sotto ci sono le multinazionali francesi e tedesche con le seconde in crescita. Competitive con Esselunga su dirigenti e quadri e dotate di proprie politiche retributive specifiche ma con la contrattazione aziendale bloccata da anni (nel caso di Carrefour) o di tono minore alle prime due (Lidl). La seconda fascia è occupata dalle insegne che applicano esclusivamente il CCNL firmato da Federdistribuzione o da Confcommercio ma non hanno costi aggiuntivi derivati dalla contrattazione di secondo livello. Semplicemente perché non c’è o l’hanno abolita. Anche loro hanno una politica retributiva aziendale finalizzata alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. Qui troviamo buona parte delle insegne più note. Più generose verso l’alto della loro gerarchia. Meno  verso il basso dell’inquadramento.

Dietro a queste insegne che rappresentano la maggioranza,  c’è una terza fascia. Il CCNL è anche qui il riferimento principale seppure con diversi “aggiustamenti” applicativi. Essenzialmente sull’inquadramento professionale, sulla gestione dell’orario di lavoro, dei turni e dei riposi. Un’applicazione relativamente lasca e specifica di ogni realtà che tiene conto delle abitudini organizzative maturate negli anni. Oppure della gestione del singolo punto vendita.

Infine c’è una quarta fascia. Non ha necessariamente una localizzazione territoriale particolare né una soglia di fatturato aziendale. Né dimensionale. In questa fascia può esserci un blando riferimento ad un CCNL ufficiale (riportato nella lettera di assunzione) solo per i minimi tabellari o l’adozione di un contratto firmato da altre organizzazioni sindacali e datoriali chiamato in modo pittoresco ma ormai entrato nel lessico comune:  “contratto pirata”. Più correttamente un insieme d norme definite fuori dal circuito delle associazioni più rappresentative. Nel primo caso troviamo numerosi part time che possono però nascondere ore aggiuntive non pagate come straordinari, oppure pagate a forfait, o in alcuni casi con altre colorazioni. La copertura contrattuale formale c’è ma la gestione della busta paga non è particolarmente trasparente.

Nel secondo caso sparisce ogni riferimento ai CCNL principali e viene applicato un insieme di norme, pur ritenute legittime dalla legge, in pejus rispetto ai testi principali. A volte sparisce la quattordicesima, il riconoscimento delle festività, le maggiorazioni, le ore straordinarie, festive, ecc. spariscono o vengono forfettizzate così come le quote destinate al welfare contrattuale. Risparmi, per chi sceglie questi contratti, spesso superiori al 15%. Un evidente caso di dumping rispetto a chi applica le regole nazionali. I controlli non esistono o sono talmente rari da giustificare i rischi di eventuali cause postume. Aggiungo che il miraggio di un passaggio a tempo pieno o di una promozione spesso rende improbabile, nei fatti, qualsiasi potenziale rivendicazione. Le aziende serie avrebbero tutto da guadagnare nel pretendere  un rispetto di norme e retribuzioni da parte dei competitor. Nessuno però lo fa.

Oggi in categoria, abbiamo quindi tre CCNL (quattro con quello della cooperazione) scaduti ma applicabili a buona parte delle diverse tipologie e formati del commercio. In teoria, due di questi su tre, pur non definibili “pirata” perché firmati dalle medesime organizzazioni sindacali confederali son essi stessi in dumping uno con l’altro. Un pasticcio che solo i prossimi rinnovi (forse) potranno sanare.

Quando affrontiamo il tema dei CCNL stiamo parlando di un perimetro superiore alle trecentomila persone se ci riferiamo alla sola Grande Distribuzione ma che comprende, nel caso di quello firmato da Confcommercio, tutto il terziario di mercato. Una platea quindi molto più vasta che coinvolge almeno tre milioni di lavoratori. Questa è la differenza tra un perimetro categoriale, applicabile ad una singola categoria (vedi la GDO) che contraddistingue, ad esempio, il modello di Confindustria rispetto a quello natura confederale che caratterizza quello di Confcommercio. E questo tema diventerà fondamentale se si deciderà di “pesare” le rispettive rappresentatività.

I CCNL in categoria sono scaduti nel 2019.  Sul numero effettivo dei cosiddetti ”contratti pirata” i pareri sono discordi. Personalmente credo che stiamo parlando di qualche centinaio di realtà locali (medie e piccole) in aumento sul territorio nazionale ma non ho contezza sufficiente della dimensione del fenomeno in alcune zone del Paese. Poca roba, si dirà. Ma, come dice Totò: “è la somma che fa il totale”. E soprattutto la situazione potenzialmente esplosiva  perché facilmente estendibile e che penalizza le aziende che ancora cercano di rispettare i CCNL. Quindi pur esistendo almeno tre CCNL nazionali,  a livello locale si sta allargando un fenomeno sempre più rilevante provocato dalle imprese che scaricano, laddove è possibile, una parte del costo del lavoro e del rischio di impresa (vedi il part time involontario) sul lavoro. 

I part-timer involontari nel nostro Paese tra il 2008 e il 2020 sono passati complessivamente da 1,3 milioni (circa il 40% del totale) a 2,7 milioni (pari al 64,6%). Nel commercio almeno il 70% dei contratti part-time stipulati, sono involontari (si definiscono così quando non sono una libera scelta del lavoratore ma esclusiva conseguenza  del modello organizzativo e gestionale dell’impresa); strumento eccezionalmente valido sul piano dell’ottimizzazione dei costi e dei flussi di clienti nei nastri orari di apertura del negozio ma con ricadute non altrettanto favorevoli sul lavoratore,  se mal gestito.

Se prendiamo, ad esempio, un lavoratore di 4° livello del CCNL del commercio da 24 ore settimanali scritti sulla lettera di assunzione la sua retribuzione è di circa 1000 euro lorde. A queste vanno aggiunti come  costo azienda,  circa 330 euro (inps, inail, ente bilaterale, fondo est, varie a carico azienda), il TFR altri 74 euro. Il totale fa circa 1400 euro. Per il lavoratore netti in busta circa 750 euro. Questa retribuzione è quella definita, più o meno,  nei famosi tre contratti nazionali ufficiali di cui sopra. Come abbiamo visto  in quelli “locali” spesso sparisce la 14°, il livello di inquadramento si comprime insieme ad altri istituti, welfare compreso, ecc.).

Di fatto il contratto applicato (ufficiale o “pirata”) viene  riproporzionato sulle ore formalmente scritte sulla lettera di assunzione che, in diverse realtà,  non corrispondono però a quelle effettivamente lavorate. Quindi dalle statistiche ufficiali questi lavoratori sono considerati teste coperte dalla contrattazione nazionale secondo i dati elaboratori dalla Fondazione Di Vittorio (https://bit.ly/3OzSqeT) e fanno  parte dei 14,5 milioni i lavoratori dipendenti del settore privato (agricoli e domestici esclusi) tutelati da un contratto collettivo nazionale di lavoro. Ma quelle “teste” non hanno affatto le loro “tasche” protette. Questo è uno dei nodi da sciogliere.

Il part-time involontario sfugge a quella tutela per diverse ragioni. Innanzitutto nella testa del lavoratore viene vissuto come una sorta di “investimento” sul suo futuro nella speranza che possa trasformarsi in tempo pieno e questo lo rende debole e spesso disponibile a superare i vincoli previsti senza ottenerne il corrispettivo del relativo straordinario,  oppure ottenendolo in modo parziale e, non escludo, la possibilità che in qualche realtà compaiano forme di forfait in varie forme e colori. È chiaro che questo crea una forma di dumping ulteriore tra imprese sullo stesso territorio. E crea una forma di “sudditanza” del lavoratore che dura e si consolida nel tempo. E tutto questo sfugge  alle statistiche.

Ho già trattato il tema del part-time involontario (https://bit.ly/3qeY4t9) come strumento di incremento  del cosiddetto  “lavoro povero”. A mio parere un problema serio, soprattutto in tempi di inflazione, se non si fa il possibile per farlo rientrare in uno schema operativo che consenta una buona flessibilità all’insegna ma non porti con sé le contraddizioni di cui sopra,  al lavoratore. Imprese e lavoratori dovrebbero poter contare su regole uguali per tutti e su controlli efficaci. E questo quadro di certezze reciproche solo un rinnovato modello  contrattuale tra le parti può assicurarlo.

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