Le differenti insegne sono tutte impegnate nella gestione e nello sviluppo delle loro risorse umane. È una funzione che gira a pieno ritmo visti gli annunci di selezione del personale, i premi conseguiti dalle aziende attente alla loro crescita, i corsi prodotti attraverso la formazione aziendale finanziata o meno. La ricerca di specialisti poi è sempre aperta. Nei punti vendita, però, il flusso di CV lasciati sul bancone all’entrata si riduce ogni giorno.
I più giovani di fronte al lavoro festivo e domenicale e al part time spesso arricciano il naso. Si comincia a percepire la difficoltà a trovare risorse con quel profilo particolare che caratterizza chi lavora nella grande distribuzione. Flessibilità, impegno, disponibilità ad imparare, capacità di ascolto e voglia di crescere non sono più così presenti nei colloqui di assunzione o sono bilanciati da richieste di maggiore libertà, autonomia, corrispettivo economico che lasciano intendere cambiamenti sempre più pressanti del mercato del lavoro. Né l’azienda con le sue prospettive future di carriera né il sindacato che in passato intercettava e rappresentava in termini collettivi queste esigenze riescono spesso a comprendere e a gestire questi approcci che mirano ad un bilanciamento diverso tra impegno personale richiesto e spazi di vita. E su questo qualcosa dovrà cambiare nei processi di selezione.
Ma i fiumi di inchiostro sulla difficoltà a trovare lavoratori e professionalità medio basse sta togliendo visibilità ad un fenomeno altrettanto interessante e non solo italiano. I CEO, quelli buoni, cominciano a scarseggiare. Nella GDO italiana il fenomeno è evidente. Arrivati a fine corsa i grandi vecchi che hanno costruito il settore nella seconda metà del novecento e che hanno accompagnato e formato una generazione di manager, esauriti i talenti delle grandi fucine di management delle multinazionali che alimentavano il comparto, l’indicatore segnala che siamo in riserva. I passaggi generazionali sono in affanno in molte realtà.
Negli USA, secondo Brittain Ladd, uno dei maggiori problemi che i retailer devono affrontare è la mancanza di talenti veri, pur con esperienza, in grado di assumere il ruolo di CEO. La pianificazione della successione in molte aziende americane è all’ordine del giorno ma non trova candidati adatti. Alcuni dei più grandi player USA operano senza un CEO. È anche vero che la maggior parte delle imprese sta affrontando sfide complesse a causa degli eventi degli ultimi tre anni. E va sottolineato che pochi settori sono stati influenzati dagli eventi come il retail.
Secondo Natalie Kotlyar, BDO manager consulting USA, “I retailer hanno dovuto fare i conti con chiusure di negozi e una catena di approvvigionamento che si è fermata bruscamente. Tensioni geopolitiche, inflazione, innovazione spinta, acquisizioni, rapporti con i propri clienti, hanno pesantemente aggravato il contesto”. Jordyn Holman, una giornalista che si occupa di retail pochi giorni fa ha scritto per il NY Times un interessante articolo sul tema. “Gli ultimi anni hanno richiesto ai CEO, non solo di muoversi in un contesto complesso per cui non sono stati formati ma anche di dover apprendere una gamma più ampia di competenze per aiutare le loro organizzazioni a navigare nei continui stop and go causati dalla pandemia e da quello che è successo dopo.
Nel 2022, 11 delle 91 società di retail della Fortune 1000 hanno visto lasciare gli amministratori delegati, secondo un’analisi della società di ricerca esecutiva Heidrick & Struggles. La situazione sta portando ad una riflessione tutto il settore negli USA sulla necessità di una maggiore formazione executive e persino di un cambiamento di mentalità decisivo per la prossima generazione di leader del retail.
Per decenni, negli USA ci si aspettava che i CEO provenissero quasi esclusivamente da percorsi commerciali, che, sapendo cosa volevano i clienti, decidevano quanto e come farli comprare. Ora, ci si aspetta anche che i massimi dirigenti capiscano anche quante risorse dovrebbero andare alle operazioni di e-commerce rispetto ai negozi fisici, come risolvere i problemi nelle catene di approvvigionamento globali e quando investire in tecnologie emergenti come il metaverso.
Fino a una decina di anni fa, la provenienza commerciale era quindi vista come la più importante, ha rilanciato Natalie Kotlyar. “Oggi, i dirigenti retail devono essere qualcosa di più che commerciali di talento. Devono essere in grado di affrontare le sfide della supply chain, il contesto politico economico nel quale l’azienda è inserita, la capacità di tessere alleanze per crescere, la tecnologia dirompente e le mutevoli esigenze dei consumatori”. Il retail ha quindi un problema di CEO che accompagna una profonda crisi del modello di business. Quindi l’investimento necessario non è di poco conto e gli attori tradizionali, compresi i CDA non sempre hanno le capacità di comprendere e guidare questi cambiamenti. Soprattutto se discendono da un modello consolidato e vincente che però rischia di aver fatto il suo tempo.
L’intero comparto, pur con le dovute eccezioni, è sempre stato costruito sul prodotto e sulla convenienza di insegna. Oggi serve essere legati al cliente, alle sue esigenze, alle sue nuove traiettorie di consumo e in grado di saper guardare dietro gli angoli per immaginare il futuro. Da noi, chi ha queste caratteristiche nella GDO, si conta sulle dita di una mano. E colpisce che spesso vengono messi in discussione proprio i pochi che hanno questa attitudine e questa visione del futuro dell’azienda e del retail in generale.
I passaggi generazionali avvenuti o in corso e i cambi di leadership sono sotto gli occhi di tutti. Così come i risultati che stanno producendo. Spesso nemmeno lontanamente paragonabili a quelli di chi li ha preceduti. Soprattutto in prospettiva futura. Il problema è che questa figura, in un contesto VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) come quello nel quale ci misuriamo è decisiva e non è quasi mai costruibile in casa. Soprattutto necessità di tempo. Che è quello che non c’è più..