Ho partecipato al processo di selezione di Gianpietro Corbari in Galbani nella metà degli anni 90. Il candidato che stavamo cercando avrebbe dovuto lavorare come Direttore di Stabilimento a Casale Cremasco con l’ing. Claudio Baroncelli capo delle Operations. Un manager con un carattere difficile ma di grande esperienza che aveva, nel suo CV prima della Galbani la Sir di Rovelli, e la Mira Lanza. Corbari era il più qualificato.
Nel comparto industriale dell’azienda lattiero-casearia si fece strada per la sua competenza. Soprattutto per la sua capacità di scomporre e ricomporre i processi migliorando le performance aziendali come pochi altri. Poi ci siamo persi di vista e lui ha fatto molta strada confermando indubbiamente le sue qualità. In PAM la rivisitazione dei negozi era quasi conclusa e i cambiamenti già visibili. Gianpietro Corbari come CEO ha fatto bene il suo lavoro.
La recente vicenda sul rientro parziale delle pulizie che ha portato allo scontro con il sindacato è sicuramente figlia di uno dei suoi progetti di razionalizzazione. Non è un caso che la sua uscita dall’azienda è praticamente contemporanea al mesto ritiro del progetto stesso. Un errore da “ingegnere” lanciare quella campagna in tempi di covid. Un errore peggiore, una volta lanciata, ritirarla. L’obiettivo non era la qualità delle pulizie come strumentalmente hanno sostenuto i sindacati. Era l’ottimizzazione delle risorse interne.
Eppure le conseguenze di quella mossa erano prevedibili. L’impatto sui lavoratori di un progetto che determina, di fatto, un demansionamento contrattuale non è mai di facile realizzazione. È difficile da motivare perché irrita ben oltre il perimetro del personale sindacalizzato. L’inquadramento contrattuale è vissuto, anche ai livelli più bassi, come un riconoscimento del proprio lavoro. Le pulizie sono l’ultimo gradino della scala. È più facile trovare volontari per il lavoro domenicale che per pulire i bagni. È vista come una punizione. Certe operazioni in pejus, seppur parziali e motivate, reggono solo se sono mirate a ridurre sacche di evidenti esuberi potenziali. Ma queste devono essere dichiarate formalmente. Non solo paventate.
Non è un caso che il sindacato, una volta ottenuto il ritiro del provvedimento ha spinto per “avviare una nuova stagione di confronto che consenta alle parti di rientrare in una dinamica di corrette relazioni sindacali così come auspicato anche dal tavolo istituzionale tenuto al Mise”. Non gli è parso vero di rientrare in gioco. Mi immagino l’impatto psicologico sulla proprietà per essere stati trascinati al MISE. E questo dopo una serie di misunderstanding continui nella squadra tra chi vede la necessità di razionalizzare l’organizzazione e chi è più sensibile all’umore della “truppa”. Ancora una volta il “partito del fatturato”, quello del “qui e ora”, l’anima commerciale di un’azienda vince sui razionalizzatori, sulla difesa dei margini, sull’innovazione e sulla scelta di costruire un futuro di cui non se ne comprende il profilo.
Pur in condizioni diverse è la seconda azienda italiana della GDO che fa un passo indietro sul suo CEO per puntare a fare uno in avanti scegliendo un terreno più tradizionale. Lo ha fatto Esselunga decidendo di non continuare con Sami Kahale e puntando su Gabriele Villa, lo sta facendo ora PAM scegliendo anch’essa un manager di grande esperienza interna come Andrea Zoratti. L’analogia, credo, sia riscontrabile nella necessità, in entrambi i casi, di serrare le fila interne disorientate dalla mancanza di risultati.
In Esselunga sembra sia bastata la crisi sul nuovo layout dell’ortofrutta con il conseguente segno meno nelle vendite per “sfrattare” il CEO. L’accusa di non conoscere clienti e comparto covava però da tempo sotto la cenere. Serviva un detonatore. È ciò che succede a chi viene da fuori se prova a rompere equilibri consolidati. Ed è la ragione per cui sono pochi gli ingressi da fuori comparto. Soprattutto dall’industria. E poi c’era in Esselunga e forse anche con PAM la voglia della proprietà di riprendere le redini del business.
Questa poi è una fase complessa. Le imprese, non solo Esselunga e PAM, si sentono assediate. Entrambe le proprietà devono impostare le loro strategie a 3/5 anni con il fiato sul collo della pandemia. E di conseguenza le loro decisioni più importanti sul loro futuro. Continuare o passare la mano in queste condizioni non è un interrogativo retorico.
Nessuno però può sottovalutare una destabilizzazione delle proprie strutture interne. L’innovazione e i cambiamenti necessari non sono un processo lineare. Creano disagi e reazioni. I risultati, pur importanti, non sono sufficienti se la squadra non presidia con convinzione i gangli vitali dell’azienda. O se, le risorse migliori, si guardano intorno. È il problema che ha anche Carrefour. Perdere chi ha mercato è un rischio che non ci si può permettere. E non bastano le rassicurazioni formali. Occorrono segnali chiari.
Entrambi i manager in questione venivano dall’industria. La Grande Distribuzione preferisce da sempre il “riciclo” interno. Al massimo pesca in altre aziende però dello stesso comparto. È l’usato sicuro. Gli imprenditori poi si fidano preferibilmente di chi ha salito i gradini uno alla volta e che ha la maglia cucita addosso. È la scelta dell’uovo oggi rispetto alla gallina domani. Questo consente loro maggiori libertà di movimento.
PAM resta una bella azienda. Appetibile e presente in tutti i formati. Lo stesso Corbari aveva annunciato che l’azienda avrebbe chiuso il 2021 in linea con i risultati del 2020 con circa 2,7 miliardi di fatturato, 1,1 miliardi solo da In’s. E la rivisitazione dei punti vendita era in via di conclusione. Forse era proprio questo il momento giusto per lasciare. Spontaneamente o spintaneamente. Adesso tocca a Andrea Zoratti.
In bocca al lupo!