Grande distribuzione. Quando dipendenti e clienti vivono le stesse difficoltà…

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La Grande Distribuzione offre punti di osservazione molto diversi tra di loro. Ci sono quelli formali, a volte un po’ tutti uguali, offerti dalle insegne stesse, quello dei fornitori caratterizzati da “amore e  odio” a seconda del momento e della qualità del rapporto, quello dei dipendenti, sia che si sentano valorizzati o traditi. Quello dei manager che si spostano da un’azienda all’altra. E poi c’è, ovviamente quello dei clienti che lo esercitano confermando il loro interesse o disertando il punto vendita. Ciascuno ha un preciso ruolo in commedia.

Intorno a questo mondo sempre un po’ uguale a sé stesso ogni tanto si aggiungono ulteriori  punti di osservazione. Ne ho “scovati” alcuni nell’ultimo libro di Niccolò Zancan “Antologia degli sconfitti”. L’autore sottolinea: “In un tempo in cui conta solo chi vince e la vittoria consiste nell’arricchimento o nella notorietà, tutti gli altri perdono. E perdono anche il diritto alla soddisfazione, alla bellezza, alla pace. È saltato il paradigma che reggeva il secolo scorso”. L’Italia è tra i Paesi europei in cui le famiglie fanno più fatica ad arrivare alla fine del mese. A fronte di una media Ue del 45,5%, quella italiana va oltre il 63%. Con una quota del 6,9% che denuncia «grandi difficoltà», il 15,4% parla genericamente di difficoltà e il 41,7% parla di qualche difficoltà. Nel 2022 2,2 milioni di famiglie vivevano in povertà assoluta: l’8,3 per cento sul totale. Nel 2010 erano un milione e 156 mila. L’Istat spiega che sono considerate assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore a quella minima necessaria per acquisire l’insieme di beni e servizi considerati essenziali per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. E non frequentano solo i discount.

Forse il paradosso  è che le stesse persone quando vanno nei supermercati tradizionali  diventano invisibili agli occhi di chi non vuole vedere. Sono “poveri” se frequentano i discount e diventano clienti altrove. Qualcosa non quadra. Oggi poi, soprattutto in alcune zone, i punti vendita sono talmente diffusi  e vicini tra di loro che non c’è da fare molta strada alla ricerca di ciò che serve. Si entra e si esce un po’ ovunque. Più dell’insegna, che interessa sempre meno, si cercano luoghi (e non luoghi)  per soddisfare le proprie esigenze nell’affanno di chi insegue distintività che spesso è solo sulla carta.

Certo c’è chi può permettersi di pagare il “giusto prezzo” che remunera con equità e giustizia l’intera filiera agroalimentare come  chiedono gli agricoltori. C’è chi, pur potendoselo permettere, sceglie altro o prodotti di importazione che costano meno e c’è chi pure non se lo può permettere e non compra più quei prodotti trasformando la spesa alimentare in un esercizio da equilibrista. Pochi nei punti vendita osservano le facce e  ascoltano collaboratori e clienti. Nel libro di Zancan si parla anche di loro. “Vite che si muovono su un piano inclinato. Quando manca la prospettiva, esiste solo il presente, e ci si cade dentro come fosse un precipizio. L’affitto da pagare, la bolletta della luce. trovare i soldi per il dentista e trovare un senso, un po’ di bellezza”. Sono gli invisibili. Esistono quelli che se la cavano e gli altri. Il libro parla degli altri. Istantanee di vita vera, vissuta ai margini.

Chiunque abbia frequentato piccoli o grandi punti vendita senza le fette di salame sugli occhi li ha incontrati. Basta osservare l’umanità che li abita per lavoro  o che li frequenta. I cosiddetti “clienti” interni o esterni che siano. Come li chiamano gli esperti. Quelli che aspettano il passaggio a tempo indeterminato, il consolidamento delle ore del part time. Il rinnovo del contratto nazionale per pagare piccoli debiti. E quelli che entrano ed escono alla ricerca di promozioni, sconti, prodotti vicini alla scadenza per risparmiare. Non solo quelli che cercano una “esperienza di acquisto” ma semplicemente un sottocosto, uno sconto che più sconto non si può. Nel libro mi hanno colpito come a volte si assomigliano persone e problemi.

Ho scelto  tre storie minori tra le numerose istantanee proposte. Tre casi che chiunque vive con un minimo di sensibilità i punti vendita di ogni insegna non può non riconoscere. Innanzitutto il dialogo ruvido della commessa part time a tempo determinato che scopre un cliente che ruba. Il confronto onestà/disonestà tra pari. Succede praticamente  ogni giorno. In un’altra storia, una vicenda nota. Quella di una nonna di ottantaquattro anni con tre figli e sette nipoti fermata in un supermercato di Ferentino dopo aver rubato una pagnotta e tre scatolette di tonno che non voleva lo sapessero i suoi parenti ed  e poi finita, suo malgrado,  sul “Messaggero”. Pensionati, immigrati, poveri di vario tipo e diventati tali per diverse ragioni  che il libro tratteggia con precisione. Sono rarissimi i casi di furto dove i direttori chiedono l’intervento della polizia. La maggior parte delle volte ci si ferma ad una ramanzina e alla richiesta di restituzione della merce. O del suo pagamento. La stragrande maggioranza dei  direttori  di punto vendita sa come gestire queste situazioni. Soprattutto di questi tempi. 

“Ma dove vai?” Grida la commessa al giovane ladro. “Non lo vedi che è pieno di telecamere? Ma come cazzo si fa? No, non  mi fai pena. Paga la busta con il pollo che hai preso e chiudiamola qui: 4,35 euro. E di fronte alla scusa banale “Guarda che anch’io non ho soldi, se è per questo. Ma non vado a rubare per supermercati“. Un confronto tra pari. Tra chi supera la riga e chi cerca di non superarla. E poi la responsabile di un punto vendita sardo che vive sulla sua pelle il modificarsi dei consumi dei propri clienti. “Ho già fatto chiudere la pescheria. A marzo tocca alla macelleria. Tanto la gente compra solo carne di maiale e di pollo. È inutile insistere:  vogliono carne preconfezionata e di bassa qualità… Questo supermercato è lo specchio della mia città. Mi fa piangere. È il contrario di quello che sognavo  di  fare”. Come non vederci il piccolo franchisee che non ce la fa più? Infine la commessa trasferita con tanto di lettera raccomandata. “con la presente le comunichiamo che, a causa della chiusura del punto vendita di Firenze, a far data dal 29 maggio 2023, sarà trasferita al nostro negozio di Alba”. A 338 chilometri. 4 ore e 39 minuti di autostrada. 9 ord e 33 minuti di treno. A parte il disagio è la seconda parte della lettera ricevuta che rende grottesca la situazione. “inoltre resta inteso che, nel prosieguo del rapporto, qualora esigenze aziendali lo richiedano, Ella si impegna fin da ora a svolgere la Sua prestazione lavorativa in luoghi diversi da quello precedentemente indicato. E resta fin d’ora convenuto che Ella dovrà rendersi disponibile a svolgere attività di lavoro straordinario, in giorni festivi e in orari particolari, in relazione alle esigenze che le verranno comunicate: Ella sono io: la commessa trasferita e sempre trasferibile”. Ecco. Una realtà troste che  si mostra se osserviamo il punto vendita dalla parte delle radici.

Se guardo il comparto con gli occhi del consumatore, certe distinzioni di formato mi sembrano anacronistiche. Supermercati e discount si inseguono perché entrambi provano ad attrarre chiunque. Non possono esistere punti vendita  differenziati per classe sociale.  È la capacità di personalizzare l’offerta che dovrebbe fare la differenza. Non il luogo. E, infine, il riconoscimento del  cosiddetto “giusto compenso” se deve valere per gli agricoltori dovrebbe riguardare innanzitutto chi lavora nei punti vendita. Facile a dirsi, molto difficile da realizzare. 

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