Nel film “Non ci resta che piangere” del 1984 è emblematica la figura del monaco che esclama ad ogni passo il famoso “Ricordati che devi morire!” costringendo il bravo Massimo Troisi, vista l’insistenza, al “mo me lo segno” liberatorio. Oggi, finito il ping pong dei virologi e dei loro epigoni stiamo rischiando di entrare nella fase del “Nun gliela famo”.
Dietro allo slogan “nulla sarà più come prima” si presentano con insistenza scenari da paura e si evocano “bombe sociali” spesso immaginarie pronte ad esplodere da un momento all’altro. Lo stesso Dario Di Vico ha sottolineato la differenza di reazione tra media, famiglie e imprese rispetto al presente ma anche al futuro che ci attende.
I primi pronti ad indicare scenari foschi e ambigui, i secondi pronti a dimenticare la fase delle scorte di farina, lieviti e pasta, i distanziamenti e le restrizioni imposti dalla pandemia per rimboccarci le maniche e andare oltre. Sta succedendo in tutti i Paesi.
Dopo gli assembramenti post lockdown, i desideri di uscire, riprendere una vita normale, c’è voglia di acquisti. A maggio 2021 l’ISTAT stima un marcato aumento sia dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 102,3 a 110,6) sia dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 97,9 a 106,7) (link ai dati completi in pdf). Nel primo week end post chiusure dei centri commerciali questo si registra.
Questa fiducia inizia a trasformarsi in una decisa propensione per gli acquisti. C’è chi lo chiama “revenge shopping” ed è un fenomeno che coinvolge milioni di persone anche se non tutti i consumatori sono ovviamente desiderosi di spendere di nuovo, soprattutto chi deve ancora affrontare i problemi economici causati dalla pandemia. Però si esce di casa e si frequentano i centri commerciali di nuovo.
Secondo Nadia Olivero, docente di psicologia dei consumi all’Università di Milano-Bicocca in un’intervista all’Agi, «le decisioni relative agli acquisti, soprattutto in periodi critici come queste, vengono condizionate, più che dall’entità del conto in banca dal livello di ottimismo sul futuro Paese».
I comportamenti registrati vanno in questa direzione. Segnalano un approccio che sfugge a molti osservatori. Non dimentichiamo che alcuni di questi luoghi, prima della pandemia, erano frequentati da milioni di persone di diverse nazionalità che consentivano nuove forme ibride al turismo classico.
Ricordo che suscitò scandalo il dover riconoscere che mete come gli outlet di Serravalle o Castel Romano tenevano testa a luoghi ben più blasonati del turismo classico (https://bit.ly/3yFKWNy). Le polemiche che hanno accompagnato le chiusure forzate nei week end si sono limitate a parlare di business e occupazione collegata senza sottolineare l’importanza che questi luoghi hanno per chi li frequenta.
E questo elemento è di difficile comprensione per chi propone altri punti di vista. C’è chi li detesta, chi li confonde con gli ipermercati, chi li vorrebbe chiusi non solo nei weekend. E c’è chi protesta per il lavoro festivo e domenicale. Spesso sono gli stessi che si stupiscono e che non comprendono cosa spinge migliaia di giovani e meno giovani a considerare desiderabili e indispensabili i cosiddetti e tanto vituperati “assembramenti”. Addirittura in tempi di pandemia e di regole da rispettare.
È chiaro che centri commerciali, outlet, parchi a tema attraversano una fase di ripensamento così come lo sono gli ipermercati. L’offerta proposta, come in tutti i campi, ha un ciclo di vita che non è infinito. Personalmente credo che occorrerebbe lavorare su di una maggiore integrazione con ciò che offre il territorio di insediamento, sulla qualità dei negozi e dei servizi offerti al pubblico, sulla opportunità di intrattenimento per i frequentatori al di là delle proposte di acquisto o della loro convenienza. E poi c’è il grande tema di ciò che l’ibridazione con l’online potrebbe consentire proprio per la gestione degli spazi e dell’offerta.
Forse il limite che va affrontato è che questi luoghi rischiano di esaurirsi dentro il proprio perimetro in una sorta di autosufficienza che non basta più. Week end, flessibilità degli orari di apertura, connessioni, coincidenze e sintonie con i territori di insediamento devono essere poste al centro di un approccio diverso. Intanto in termini di autorevolezza politica nei confronti di chi forse con evidente leggerezza ne propone un ridimensionamento nelle aperture o ne critica l’esistenza stessa.
Non dimentichiamo che sulla presunta “non essenzialità” di un attività economica si è rischiato di condannare interi settori economici al declino o alla chiusura. Per questo, bene sta facendo chi chiede interventi di sostegno e accompagnamento verso la normalità per chi è stato colpito da queste misure restrittive. Ed è anche su questo che si gioca la qualità della ripartenza.
Certo la luce in fondo al tunnel che famiglie e imprese stanno intravedendo va messa rapidamente a terra con tutti gli interventi necessari. Solo così, innanzitutto rilanciando i consumi interni, il Paese potrà concretamente ripartire.
L’analisi è corretta, perun paese normale.
L’Italia è un paese che per vincoli familiari, ricchezze cumulate dalle precedenti generazioni. Ricchezze derivanti dalla evasione fiscale , dal lavoro nero, dal umero enorme di persone che vivono dei proventi della criminalità organizzata e ultima ma non meno importante la corruzione pubblica e privata .tutto rende l’Italia un paese molto ricco nel.privato e quindi difficilmente inquadrabile