La filiera agroalimentare nazionale cresce. Le nostre esportazioni nel 2023 hanno toccato i 62 miliardi di euro. Restano però diversi ostacoli da superare. Essendo un Paese essenzialmente trasformatore, la bilancia commerciale della filiera italiana è ancora negativa. Inoltre l’Italia si attesta al quinto posto in Europa per valore delle esportazioni agroalimentari. Non va poi sottovalutato che il settore è composto per l’83% da piccole imprese, che contribuiscono solo all’11% dei ricavi del settore. A questo occorre aggiungere un dato che fa riflettere sul potenziale a nostra disposizione e quindi sul futuro.
Il valore del Food&Beverage italiano potrebbe potenzialmente raddoppiare senza il cosiddetto “Italian Sounding”. I consumatori esteri hanno infatti acquistato 63 miliardi di prodotti tipici italiani “falsificati” che non provengono dal nostro Paese. Si tratta di un fenomeno diffuso maggiormente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in America latina e in diversi altri mercati, inclusi quelli europei e fa riferimento all’uso di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari non italiani. Una sorta di falso Made in Italy soprattutto nel settore agroalimentare, che sfrutta la reputazione di ciò che si produce nel nostro Paese per commerciare prodotti che poco vi hanno a che fare.
Come analizzato nel dettaglio da The European House-Ambrosetti. “L’Italian Sounding – ha evidenziato Benedetta Brioschi, partner TEHA – è competitivo grazie a prezzi mediamente inferiori del 57% rispetto ai prodotti originali. Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del Parmigiano può essere ridotto fino al 38%, quello del mascarpone fino al 50% e della pasta secca fino al 54%”. Ogni giorno nel mondo vengono acquistati o consumati in locali di ristorazione migliaia di prodotti alimentari e bevande italiane non originali. Sono imitazioni o addirittura prodotti contraffatti che rispondono alla grande domanda di cibo italiano che come confermato da recenti studi è la cucina più amata al mondo. Ragù (61,4% Italian Sounding vs 38,6% vero prodotto italiano), parmigiano (61,0% vs 39,0%) e aceto balsamico (60,5% vs 39,5%) sono i tre prodotti più presenti in versione “imitazione” sugli scaffali della grande distribuzione all’estero.
“Le regioni più colpite dal fenomeno – spiega Valerio De Molli – Managing Partner & CEO, The European House – Ambrosetti – sono quelle che concentrano la propria esportazione su prodotti ad alta intensità di Italian Sounding, come i prodotti a base di carne o i prodotti lattiero-caseari, così come verso i Paesi più sensibili al fenomeno (Giappone, Brasile e Germania)”. “La tutela del Made in Italy – continua De Molli – è una priorità e l’implementazione di nuovi regolamenti DOP e IGP a partire dal 2024 rappresenta un passo significativo in questa direzione.“L’Italian Sounding – conclude Valerio de Molli – si può contrastare attraverso iniziative economiche e industriali in sinergia con un cambiamento culturale soprattutto nella consapevolezza del consumatore estero.
Certamente è prioritario realizzare investimenti produttivi, ma anche comunicare con efficacia il “Made in Italy” con iniziative di educazione del consumatore. Da un lato la riduzione delle barriere doganali e l’internazionalizzazione della filiera italiana della distribuzione possono essere fattori determinanti così come una forte disincentivazione all’indicazione fallace in etichetta, ma anche la creazione di ambasciatori del Made in Italy e l’adozione di tecnologie che permettano una precisa tracciabilità del prodotto”.
Se la contraffazione può essere legalmente impugnabile e sanzionabile, la stessa cosa non vale per i prodotti cosiddetti di Italian Sounding che si servono di denominazioni geografiche, immagini e marchi che richiamano all’Italia, inducendo il consumatore ad associare erroneamente l’imitazione al prodotto autentico italiano. Per citare alcuni esempi: Parmesan, che imita il Parmigiano Reggiano, Mozarella, che viene spacciata per mozzarella di bufala, Salsa Pomarola, venduta in argentina, Zottarella prodotta in Germania, e Spagheroni olandesi.
L’Italian Sounding spesso si è avvalso dell’esperienza e delle conoscenze produttive di emigranti italiani: è infatti maggiormente diffuso proprio nei Paesi che hanno rappresentato le tradizionali aree di emigrazione e dove le comunità italiane sono più radicate. All’inizio, costruendo le aziende con le stesse produzioni realizzate in Italia da parte degli espatriati nei nuovi paesi; successivamente creando nuovi prodotti con marchi di fantasia che richiamano nomi italiani. In molti casi, i discendenti di emigrati italiani hanno semplicemente usato (o tuttora usano) il loro cognome italiano come un marchio per i prodotti che, di fatto, non hanno più alcuna relazione con quelli originali.
Bottiglie di vino di livello mediocre spacciate per Prosecco, olio taroccato e improbabili mozzarelle di bufala. Il web rischia poi di essere la nuova frontiera delle falsificazioni alimentari, dove domanda e offerta si incontrano e spesso si trovano fregature colossali con danni per la salute e l’economia sana. Le radici di questo scenario si possono individuare in diversi fattori, tra cui una notevole distanza geografica dall’Italia, differenze nelle abitudini alimentari e nella consapevolezza delle eccellenze Made in Italy, oltre a barriere normative e doganali. Inoltre, l’analisi evidenzia che in 3 casi su 10 il consumatore straniero si orienta su una tipicità gastronomica italiana quando questa prevede una spesa più bassa, piuttosto che la garanzia della reale provenienza territoriale.
Tutto questo provoca conseguenze immaginabili anche sull’occupazione che Filiera Italia stima in 300mila posti di lavoro in meno. Affrontare il fenomeno è, dunque, prioritario. Secondo una stima elaborata da Ismea e The European House – Ambrosetti su dati Istat l’Italian sounding potrebbe essere convertito, almeno parzialmente, in export effettivo in un lasso di tempo di soli undici anni, grazie all’effetto congiunto di una forte accelerazione degli investimenti da parte delle aziende, della capacità di rendere questi investimenti molto più produttivi e dallo sfruttamento efficace dei fondi destinati alla filiera agroalimentare da parte del PNRR.
A questo andrebbe aggiunta una campagna che affronti la scarsa conoscenza della distintività del nostro agroalimentare nel consumatore straniero, un intervento sulle barriere all’accesso di alcuni mercati, sulla limitata conoscenza dei mercati di riferimento da parte delle piccole imprese italiane del comparto e sulle barriere di comunicazione tra queste e i consumatori di altri Paesi.