Chi lavora in una piccola azienda in difficoltà sa quanto è facile trovarsi improvvisamente senza lavoro. Lo intuisce subito. Dal clima interno, dall’umore del proprietario quando torna dalla banca. Dal fornitore che non consegna o dal collega anziano preoccupato del suo mutuo e del fatto che quest’anno non riuscirà a cambiare l’auto.
Nella grande azienda non è così. Anche lì ci sono segnali evidenti ma sono meno diretti, attutiti dalla gerarchia interna, mediati dalla forza dei numeri e dai toni e messaggi di sfida nelle sempre più frequenti assemblee sindacali. La fase che va dalle prime voci alla macchinetta del caffè fino allo striscione rosso fuori dai cancelli con la classica scritta in bianco sempre uguale a se stessa procede tra umori alti e bassi che assomigliano più ad un giro sulle montagne russe che ad una agonia preannunciata.
Dentro c’è tutto. Speranze, delusioni, mutuo e rate da pagare, figli da crescere, paura di non trovare lavoro e pensione lontana. C’è chi può cedere subito perché riesce a trovare lavoro, chi spera nella generosità temporale degli ammortizzatori sociali e chi deve contare sulla sua capacità di resistenza o sull’aiuto di amici e parenti.
Per il sindacalista che si trova in mezzo a loro comincia il momento più difficile. Gestire la fase di attesa, le delusioni dopo gli incontri, le liti tra ottimisti e pessimisti, la capacità di assicurare la solidarietà dei lavoratori di altre aziende e di “estorcere” qualche illusoria promessa di intervento al politico di turno che si presenta davanti ai cancelli.
E’ il suo “mestiere” stare in mezzo alla gente. E’, a mio parere, un valore aggiunto che lo rende ancora unico, vero, indispensabile in quei momenti. Ed è la ragione che caratterizza, in fondo, la job description del sindacalista di territorio di ieri ma credo anche di sempre: La passione di vivere come propri quei momenti drammatici, di sentirsi parte di quell’insieme di persone, di battersi per una soluzione possibile che spesso, alla fine del percorso individuato con fatica, manda in mille pezzi molti di quei legami costruiti con fatica per interessi e prospettive divergenti dei singoli. Altre volte crea amicizie indissolubili.
La vicenda di “Mercatone Uno” ( http://bit.ly/2YT3Rlt ) irrompe in questo contesto riscrivendo completamente le parti in commedia rischiando di trasformare una tragedia in farsa. Con buona pace per chi non ha tenuto sotto controllo l’epilogo di un sogno imprenditoriale fallito, fornitori che hanno fiutato un buon affare, un’azienda che forse ha ancora delle potenzialità e 1800 famiglie che sono state gettate nello sconforto più totale da una comunicazione tramite whatsapp di capi e colleghi o apprendendolo dalla rete, dai media e da una politica che, alle battute finali di una campagna elettorale incattivita, ha cercato di strumentalizzarne il disorientamento contro l’avversario di turno.
È vero che in epoca di disintermediazione dobbiamo abituarci agli interventi a gamba tesa di ministri e leader dell’opposizione anche in una complessa vicenda sindacale. In passato non era affatto così. Ricordiamo le critiche a Enrico Berlinguer quando si recò davanti ai cancelli della FIAT per manifestare la solidarietà attiva del suo partito.
Ma un conto è disintermediare per trovare soluzioni, un altro è farlo per limitarsi ad alzare i toni per individuare o scaricare responsabilità su altri. La crisi di “Mercatone uno” ha origini lontane. Ed è quella delle grandi superfici generaliste. Dario di Vico ripercorre sul Corriere la storia emblematica attraverso il sogno del suo inventore ( http://bit.ly/2HCllg8 ). “Mercatone Uno è arrivato a essere un colosso con 6 mila dipendenti tra diretti e indiretti e 90 punti vendita, ha sponsorizzato il Bologna calcio ma è stato travolto dal combinato disposto di truffe imprenditoriali, indagini giudiziarie e incapacità di tenere l’urto del mercato”.
Quello che i 1800 dipendenti si aspettano da lunedì al MISE è una soluzione dopo una crisi lunga e travagliata. Non sarà una passeggiata. Troppi corvi aleggiano sul cadavere di un’azienda fallita ma forse ancora in grado di rigenerarsi.
Se si vuole evitare la spoliazione di quello che resta e lo spezzatino delle filiali alcune delle quali in ottime posizioni geografiche occorrerebbe individuare una partnership credibile. Cosa non facile di questi tempi. Per questo deve ritornare in campo il sindacato confederale anch’esso preso in contropiede dalla sentenza di fallimento. Prima succederà, meglio sarà per tutti.
Bisogna però impedire che la giusta indignazione dei lavoratori in questa ultima fase della vicenda spinga verso soluzioni raffazzonate e prive di futuro. L’ho già scritto a proposito della vicenda Auchan/Conad.
Occorrerebbe che al MISE affrontassero a 360° le conseguenze della crisi della Grande Distribuzione nei suoi sottosettori. Sbocchi occupazionali concreti, formazione, ricollocamento degli esuberi e dei siti dismessi possono costituire un banco di prova importante per un intesa di sistema tra parti sociali e istituzioni propedeutica ad un nuovo modello di relazioni industriali che crede nella collaborazione e non nell’antagonismo inconcludente.
Ma soprattutto questa scelta consentirebbe a ciascuno dei soggetti in campo di esercitare il proprio ruolo sociale evitando sovrapposizioni inutili e toni che non favoriscono per nulla la coesione sociale e la soluzione dei problemi del lavoro.