Da una parte chi ha in testa esclusivamente il proprio business. Dall’altra chi pensa che le tutele degli addetti siano una priorità assoluta. In mezzo ci sono loro: i cosiddetti ciclofattorini o, per rendere meno banale la loro job description, i rider. Quelli che, spesso stranieri, bussano alla nostra porta con nella borsa i nostri ordini al ristorante o alla pizzeria.
Lo scontro tra i due partiti è senza esclusione di colpi. Il primo schieramento pressato dalla necessità di fare qualche passo ha negoziato un contratto nazionale provocatorio pur assolutamente legittimo con l’UGL facendo imbufalire sia il sindacato confederale che tutto quel mondo variopinto e spesso inconcludente che, pur senza alcun titolo, segue la vicenda.
All’opposto chi pretenderebbe la semplice applicazione del CCNL della logistica che vincolerebbe, una volta per tutte, questa figura come lavoratore dipendente. In mezzo vari esperimenti locali e promesse generiche di future applicazioni di contratti probabilmente molto diversi da quello in essere o auspicato.
Per i primi è una semplice questione di costi e di flessibilità. Per i secondi di diritti e di tutele. Un dialogo tra sordi. Il lockdown fortunatamente sta spingendo le parti forse verso soluzioni praticabili. Il contratto firmato dalla sola UGL ha svolto il suo compito di rompighiaccio ma non può essere l’approdo finale. Di questo le aziende se ne devono convincere. Pur legittimo sul piano formale resta divisivo. All’opposto quello della logistica, mai condiviso dalle imprese del settore, resta un obiettivo impraticabile.
Hanno entrambi un vizio di fondo. Voler imporre una soluzione semplice ad un problema complesso dimostrando la medesima difficoltà a comprendere la necessità di individuare soluzioni adatte ad un’attività che, in tutto o in parte, sfugge a classificazioni classiche.
Il contesto però potrebbe favorire una possibile ripartenza a “prato verde”. Il business di queste aziende sta crescendo anche grazie al lockdown che ha spinto molti ad utilizzare questo servizio. Il cosiddetto “ultimo miglio” è un piatto troppo ricco e importante per le imprese. Non solo di quel settore.
Non c’è solo la ristorazione classica che, per prima l’ha proposto e utilizzato. C’è la grande distribuzione, la logistica, l’idea che si possano creare business nuovi che ricostruiscano la filiera dal produttore al consumatore in campi ancora tutti da esplorare, dovrebbero consentire di riconsiderare la componente del lavoro necessario sotto un’altra luce.
Il primo errore compiuto è stato, a mio parere, lasciare il campo ai soli rapporti di forza o alla politica locale che non ha alcuna possibilità di intervento regolatorio. Aggiungo che l’indignazione di chi non utilizza il servizio ma ne contesta il modello di business lascia un po’ il tempo che trova.
Appelli come quello che invitano al boicottaggio del servizio mi ricordano i pregiudizi contro le multinazionali della banane o dei cibi cosiddetti “spazzatura” di antica memoria. Ricordo la scritta sul distributore di bevande della mia scuola sul finire degli anni ‘60: “Per ogni Coca Cola che berrai, una pallottola all’ameriKano tu darai. E se l’ameriKano non fallisce è un compagno vietnamita che perisce”. Parole in libertà. Forse è il caso di fare un passo in avanti. Aggiungo che la rete è sempre solerte a condividere giudizi che non costano nulla. Poi però c’è la realtà.
Attardarsi solo sulla tipologia di inquadramento dimostra il livello dilettantesco del confronto. Faccio un modesto esempio. Just Eat ha annunciato che applicherà il CCNL da marzo. Tutti ad applaudire la spaccatura tra le aziende del comparto come fosse l’inizio del cedimento auspicato e non un semplice calcolo di interesse. Se sceglierà il contratto multiservizi però la tariffa oraria lorda base è vicina ai 7,5 euro contro i 12 di quello della logistica. Non proprio la stessa cosa. Ma se l’obiettivo è ricondurre questa tipologia semplicemente al lavoro dipendente lì si arriverà. Con buona pace di coloro che credono che l’applicazione di un contratto nazionale sia la condizione unica e imprescindibile. Così le tutele reali di questa, seppur piccola ma interessante popolazione, saranno lasciate ancora una volta sullo sfondo.
Forse è il metodo utilizzato fino ad ora che è destinato a non produrre alcun risultato utile. Innanzitutto la presenza di multinazionali con country manager che devono rispondere in prima persona del loro conto economico ma forse deboli sul piano negoziale sindacale dovrebbe spingere non solo ad associarsi, cosa che hanno fatto, ma, attraverso la loro associazione, costruire un percorso di fattibilità contrattuale con tappe intermedie e una ipotesi di sbocco finale che è altra cosa che ribadire il “no” al lavoro dipendente.
Probabilmente all’interno di quella nuova tipologia di lavoro ne coesistono alcune che possono trovare quello sbocco e altre che mantengono e manterranno caratteristiche più simili al lavoro autonomo che potrebbero trovare altre soluzioni. Magari più in linea con le esperienze presenti in alcuni Paesi europei. Individuato il percorso occorre l’autorevolezza per poterlo verificare con la controparte individuata che, a sua volta, dovrebbe costruirsi un mandato vero dai ciclofattorini senza dichiararsi titolari di un ruolo oggi solo sulla carta. Capisco che non sia facile perché oggi la rappresentanza è una micronesia di etnie, interessi e visioni.
Ma più che passa il tempo, lo dico per esperienza, le imprese, se non scommetteranno su interlocuzioni serie (seppur meno accomodanti di quelle individuate fino ad ora) si troveranno travolti da un frazionamento dispersivo ben conosciuto a chi opera nella logistica. E saranno costrette a passare il loro tempo nei tribunali.
Sottolineo quindi la necessità di ripartire da zero il più rapidamente possibile. Chi mira in entrambe le parti alla capitolazione dell’avversario non ha la più pallida idea di dove si sta infilando e, soprattutto, dove sta parcheggiando aspettative e interessi reciproci.
Una risposta a “I rider senza soluzioni costretti tra interessi contrapposti…”