I top manager USA (e non solo) preferiscono la scrivania…

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Secondo Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn l’orario di lavoro tradizionale dalle 9 alle 17 potrebbe diventare obsoleto entro il  2034 (https://bit.ly/3XegGYz). Questa sua previsione è basata su una serie di valutazioni dei fattori tecnologici e culturali che stanno trasformando il panorama del lavoro. Per ora più di una previsione la definirei una profezia che prefigura uno scenario tutt’altro che rassicurante. Il tira e molla planetario sullo smart working ne è un esempio evidente. Il caso più recente coinvolge addirittura Walmart negli USA. L’azienda continuerà a consentire al personale di lavorare da remoto, purché sia in ufficio per la maggior parte del tempo. E questo sta succedendo un po’ dappertutto, nelle grandi aziende americane e non solo.

Il messaggio  esplicito che accompagna questa decisione è di una chiarezza estrema. Se il lavoro può essere svolto da remoto tanto varrebbe trasferirlo in India o altrove dove costa meno. Un messaggio che non si presta ad interpretazioni. In apparente contraddizione Walmart mette sul piatto un investimento di  oltre 1 miliardo di dollari nella costruzione di un campus all’avanguardia presso la sua sede di Bentonville, in Arkansas, per rendere il lavoro il più piacevole possibile. Ovviamente l’approccio dell’azienda guarda al contesto.

Walmart sta affrontando un ambiente competitivo incredibilmente impegnativo. L’azienda di Betonville ha di fronte diverse  sfide. Innanzitutto difendere la sua leadership. Amazon, Kroger e ALDI USA stanno cercando di aumentare la loro quota di mercato. Addirittura Temu e TikTok, potrebbero entrare anche loro nel mercato del food. In secondo luogo servono ingenti investimenti sul versante della tecnologia.  L’intelligenza artificiale, la robotica, la logistica autonoma e l’evasione automatizzata degli ordini in negozio sono la nuova realtà con cui confrontarsi. Walmart ha quindi deciso che le priorità impongono ai dipendenti di ritornare in ufficio. Compresi i lavoratori dei piccoli uffici incentrati sulla tecnologia a Dallas, Atlanta e Toronto a cui viene chiesto di trasferirsi in altri hub centrali come nella sede centrale di Bentonville, Arkansas, così come Hoboken, New Jersey e la California settentrionale.

Secondo i sostenitori di questa decisione  l’azienda si deve concentrare su sé stessa e sui clienti. Il lavoro da remoto non è ritenuto compatibile con la sua cultura organizzativa e manageriale. Walmart si sente  in “guerra”  e “pretende” una sintonia totale intorno al suo modello di impresa. Il ridimensionamento dello smart working o meglio, del remote working, sta però lasciando il segno. Non solo negli USA. Chi ha sentenziato troppo rapidamente sul  tramonto del concetto di  luogo di lavoro, di possibile  superamento del tempo e degli spazi tradizionali, visto lo scenario innescato dalla pandemia ha però lavorato di fantasia. La realtà si è rivelata molto più banale. La stragrande maggioranza delle aziende e dei top manager non erano e non sono  preparati a questo cambio, che è innanzitutto  culturale.

Diverso è stato  per le realtà che si erano strutturate per tempo, addirittura prima della pandemia, e che avevano intuito nello smart working, ben più del remote working, un’evoluzione del lavoro, vincolato ad un tempo definito in un luogo definito, e che, avrebbe portato con sé un elemento di crescita e un carico di di responsabilizzazione, di equilibrio e di soddisfazione nelle persone coinvolte  tale da contribuire a  rinsaldare il rapporto tra individuo e azienda. Molte imprese però non sembrano interessate a capire e ad assecondare  i cambiamenti in atto nelle persone e nel mondo del lavoro. Impegno, disponibilità, ingaggio e condivisione dei valori aziendali, non solo nelle nuove generazioni, si devono inevitabilmente declinare diversamente rispetto al passato.

Il cosiddetto “patto” che un tempo conteneva una sorta di garanzia del lavoro  “dalla culla alla tomba” in cambio della “fedeltà” del lavoratore oggi, per mantenere una sua validità, necessita di ben altro. La “fedeltà” non garantisce più il posto di lavoro. Oggi fa premio la “lealtà” costruita attraverso uno scambio esplicito e trasparente che però, può anche avere una inevitabile  data di scadenza. Vale per tutta la durata del rapporto.  Uno scambio maturo, quindi, che deve convincere e soddisfare entrambi i contraenti. Per questo nella gestione delle risorse umane di oggi c’è una linea di demarcazione  interessante da esplorare.

Da una parte ci sono le aziende, soprattutto medie e piccole  che non fanno  nulla  o quasi. La stragrande maggioranza. Se va bene rispettano (o interpretano a loro favore)  i contratti nazionali. Internamente fanno il minimo indispensabile cercando di salvaguardare esclusivamente le risorse più importanti. D’altra parte, quelle che hanno collaudate politiche di gestione delle risorse umane. Dalla selezione allo sviluppo, dal coinvolgimento all’ascolto e ne fanno spesso una caratteristica distintiva. Dove ci sono degli specialisti della funzione le metodologie sono chiare, le risorse umane sono considerate un patrimonio aziendale che va alimentato, gestito, ingaggiato. Queste politiche vengono comunicate in modo trasparente ai singoli, e, nel caso esista in azienda una rappresentanza sindacale, viene informata e coinvolta sugli elementi fondamentali che le caratterizzano.

Alcune di queste  realtà sono caratterizzate dal cosiddetto “totalismo aziendale”. La definizione è del professor Stefano Zamagni che ha studiato a fondo il fenomeno. E’, in parole povere, l’azienda che, dentro i suoi confini, ritiene di bastare a sé stessa. Produce valori, cultura, procedure e stili di management che nascono e muoiono all’interno delle proprie mura. Situazione tipica dei grandi gruppi multinazionali che, in questo modo, si riconoscono in riti e liturgie specifici che ne identificano l’appartenenza. Mettono a disposizione dei propri collaboratori, benefit individuali e collettivi molto interessanti. Lo pseudo smart working, laddove è nato come risposta tattica ad un problema specifico ha portato allo scoperto una contraddizione. Non essendo parte di quella cultura, lo scambio si è inceppato. E tutto quello che l’impresa ha costruito in termini di welfare, benefit e contropartite è, in molti casi, apparso improvvisamente insufficiente agli occhi del singolo lavoratore.

Nella GDO nazionale  il caso più emblematico ha coinvolto Esselunga (https://bit.ly/4ajoLi3). Azienda nota per il suo efficace e positivo ”totalismo aziendale”. Per le contropartite economiche e per i benefit che assicura. La rimodulazione dello SW ha provocato una reazione fortemente negativa sia sul piano pratico che sulla percezione del valore del “patto” che è apparso strumentale e funzionale alle esigenze aziendali e meno attento alle esigenze individuali. E le resistenze dell’azienda sono essenzialmente di carattere culturale.

Il rapido avanzamento della tecnologia consente di svolgere molte attività senza rendere indispensabile la presenza fisica dei dipendenti in ufficio. Questo permetterebbe una maggiore flessibilità, consentendo ai lavoratori di svolgere le loro mansioni da qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Aggiungo che le nuove generazioni di lavoratori, come i Millennial e la Generazione Z, danno molta importanza all’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. È chiaro che la sfida per molte imprese è complessa. Richiede un salto di qualità del management e investimenti  in tecnologie adeguate per supportare il lavoro remoto e garantire la sicurezza dei dati. Inoltre, è necessario sviluppare nuove modalità di gestione e comunicazione per mantenere il team coeso e motivato.

C’è un mondo oltre il ponte levatoio del castello fatto di clienti, fornitori, collaboratori, giovani e anziani che sfugge alle indagini commissionate dai vertici aziendali promosse più per trovare conferme delle loro convinzioni che per capire la realtà che cambia. Forse una parte del  problema sta proprio lì. La pressione esasperata sulle persone e sul lavoro  l’ossessione sui costi e sui risultati a breve che generano un loop infinito. Manca la voglia di ricercare nel proprio modello di management, nei limiti della cultura aziendale e negli  errori nella gestione delle persone le vere cause della crisi.

L’Italia del lavoro nero, dei contratti nazionali non firmati o firmati in ritardo, dei licenziamenti via sms, dei furbetti del cartellino e degli scioperi del venerdì ha bisogno di campioni positivi in tema di lavoro e di una nuova stagione di condivisione di buone pratiche. Prima che si ritorni a vecchie logiche di contrapposizione. 

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