La pronta risposta della Commissione Europea ha certamente evitato la degenerazione del disagio del mondo agricolo e ha spento sul nascere quella che stava assumendo le caratteristiche di una rivolta continentale di un intero comparto economico. A questo, ciascun Paese ha poi messo in atto iniziative specifiche che hanno contribuito a riportare il clima ad un livello accettabile. Da noi, si è cercato disperatamente di tenere aperta artificialmente una vicenda ormai chiusa, alla ricerca, impossibile, dell’individuazione di un colpevole unico e non, come è in realtà, una somma di responsabilità, ritardi, inefficienze e incongruenze di una filiera che fatica ad affrontarli per limiti oggettivi e soggettivi. C’è allora chi il colpevole l’ha trovato nella “matrigna” Europa, chi nelle politiche del Governo, chi nell’associazionismo autoreferenziale e poco combattivo e chi negli egoismi delle diverse componenti a valle della filiera.
Passare dalle riviste di comparto e dai comunicati associativi, che affrontano questi temi quasi quotidianamente, alle prime pagine dei giornali determina una inevitabile spettacolarizzazione delle problematiche e l’esaltazione di leadership modeste di esagitati che cavalcano una protesta priva di una strategia di lungo periodo. E siccome in alcune situazioni è complicato distinguere il vero dal falso, vale il vecchio proverbio che ci spiega che di notte tutti i gatti sono bigi e quindi hanno tutti ragione a protestare, pur sapendo benissimo che, fino a quel momento, nessuno o quasi, tra i decisori veri, si fosse preoccupato degli effetti sul comparto della velocità del cambiamento necessario per ciò che prevede il cosiddetto Green Deal, delle conseguenze della guerra ai confini della UE, delle importazioni che inevitabilmente toccano gli interessi degli agricoltori in alcuni Paesi, dell’inflazione e dei costi con cui le imprese si trovano a dover fare i conti, della differenza che tutto questo provoca sulle imprese agricole di diverse dimensioni e delle diseconomie presenti nei vari passaggi dal campo allo scaffale. E neppure sull’impatto sui consumi.
Il confronto politico si è così improvvisamente polarizzato puntando decisamente a monte (l’Europa matrigna) o a valle (la Grande Distribuzione). Con la destra della politica che, in genere, è portata a scegliere il primo bersaglio, mentre la sinistra il secondo. Con scene a dir poco grottesche. La Lega, i cui esponenti parlamentari chiedevano di più per gli agricoltori, a favore di telecamera schiacciando l’occhio alla protesta più radicale, aveva contemporaneamente il ministro Matteo Piantedosi (sempre della Lega) che scoraggiava le proteste convincendo gli organizzatori ad incanalarle in modalità e orari tali da renderle sostanzialmente inutili e con Giancarlo Giorgetti, anch’esso della Lega, che spiegava che le casse erano vuote e che le aspettative non potevano essere onorate più di tanto. Un esempio di circolarità della politica difficile da reggere a lungo. A sinistra hanno invece puntato sul classico. Sulle “scelte neoliberali fatte in questi decenni” non si sa bene da chi o, per chi sta un po’ più al centro, sulla voracità della Grande Distribuzione. E, per fare questo, si sono messi ad agitare il drappo rosso della differenza del prezzo pagato all’agricoltore con quello che il consumatore trova sul banco della GDO sperando di recuperare consenso. In mezzo a questa sarabanda di confusione, annunci e interpretazioni, i media ci hanno messo del loro.
Fortunatamente Coldiretti, messa sotto accusa da più parti, ha mantenuto la calma, ha bruciato qualche copertone a Bruxelles e incontrato la Presidente del Parlamento europeo, in Patria ha rinserrato le fila organizzando le assemblee territoriali con i suoi associati, ha incontrato il Governo Italiano ottenendo tutto ciò che era ottenibile in questo contesto economico. Ovviamente in accordo con le altre organizzazioni principali del comparto (Confagricoltura, Cia, Copagri, Alleanza Coperative). La protesta si è così sgonfiata, gli estremisti, le loro sigle e le loro roboanti parole d’ordine sono stati messi in un angolo e le notizie di rievocazioni storiche di fantasiose “marce su Roma” sono sparite velocemente dalle prime pagine. Resta qualche talk show, per chi li guarda, dove i partecipanti per catturare l’ascolto se la cantano e se la suonano tra di loro.
Adesso, però, inizia il secondo tempo. E tutti i componenti della filiera dovranno scendere in campo preparati per difendere le loro ragioni e per individuare, insieme agli altri interlocutori e al Governo, i correttivi necessari. Che la GDO sia sospettata almeno di “responsabilità oggettiva” dalla maggioranza dei commentatori è cosa nota. Smontarla non sarà facile. Eppure basterebbe ragionare sulla dimensione e le diseconomie di chi vende alla GDO, i passaggi intermedi, sui costi della conservazione del prodotto, sugli scarti, sulla logistica, sui trasporti e via discorrendo. Cose complicate da capire al grande pubblico. Figuriamoci da spiegare. Brandire una carota a favore di telecamera con prezzo pagato all’origine e prezzo segnalato sullo scaffale della Grande Distribuzione è più semplice e chiama all’applauso.
Fortunatamente al tavolo che conta chi si siede è preparato e sa cosa fare. E cosa dire. La GDO, avrà la possibilità di produrre le proprie determinazioni sulla distribuzione del valore lungo la filiera proprio per evitare le troppe parole in libertà sull’argomento. E questo dovrà essere messo a confronto con le criticità paventate dal mondo agricolo e da ciò che nei vari passaggi determina appunto, costi e inefficienze varie, che si riflettono sul prezzo del consumatore finale. Servono pazienza, conoscenza dei problemi, serietà dei partecipanti e concretezza per trasformare una criticità in un’occasione di confronto costruttivo. Bisogna essere consapevoli del ruolo che ogni attore della filiera è chiamato a svolgere ed evitare assolutamente che, da oggi alle prossime elezioni europee, un tema centrale venga trasformato in un confronto politico fine a sé stesso inutile e controproducente. Nel 2023 la GDO, tramite le sue associazioni, ha dovuto affrontare, con il “carrello tricolore”, l’accusa di essere una delle causa dell’inflazione. Smontata con i fatti e con gli impegni, quell’accusa, nel 2024 dovrà affrontare e respingere quella di “affamare” gli agricoltori e, quasi contemporaneamente, di non pagare il giusto ai suoi lavoratori, non avendo ancora rinnovato il CCNL. Sfide decisive per l’associazionismo di categoria.
La lezione che però ci viene da ciò che è successo con la vicenda che ha coinvolto gli agricoltori, in particolare in italia, e che accettare che delle modeste minoranze vocianti prendano il sopravvento sulla base di esplosioni di collera collettiva è sempre un errore. Da qui l’esigenza di certificare “chi parla a nome di chi”, di verificarne il peso effettivo, la rappresentatività reale. La possibilità di parlare e di firmare in nome e per conto di una categoria. Non certo per il tono della voce o la radicalità delle rivendicazioni. Strutture stabili e riconosciute come i corpi intermedi servono a proteggere il popolo anche da sé stesso. Dalle fughe in avanti. Per questo il frazionismo associativo, pur rappresentando certamente una volontà di protagonismo e di democrazia dal basso, è anche indice di degenerazione del sistema della rappresentanza. Rappresentare qualcuno o qualcosa non è per tutti. Presuppone sensibilità e capacità specifiche di comprensione dei problemi, di ascolto, di sintesi ma anche di proposta e ultimo, ma non meno importante, di essere riconosciuti dagli interlocutori politici e istituzionali. Non basta la protesta. O le intemerate sui social che lasciano il tempo che trovano. Senza una legge che certifichi la reale rappresentatività non si può pensare che basti alzare la voce o scendere in piazza per conquistare i tavoli che contano. Oppure che leader improvvisati si mettano, come le mosche sulla testa del cavallo, pensando di essere loro a dirigerlo per il solo fatto di trovarsi in quel posto al momento giusto. Ed è quello che è successo in queste settimane.
La Grande Distribuzione attraverso le sue associazioni non deve cadere nel tranello di rispondere “a brigante, brigante e mezzo!”, non è quello il suo ruolo. Coldiretti come Confindustria o Confcommercio, per citare le confederazioni più rappresentative, ma questo vale anche per le federazioni e per le associazioni di categoria, possono piacere o meno in alcune degenerazioni autoreferenziali o per il ruolo, spesso eccessivo delle burocrazie interne, ma la differenza tra loro e gli agitatori di professione sta tutta nella capacità di saper chiudere le partite che aprono. Certo, a volte scontentando un po’ tutti. Associati e avversari. Ma questi sono tempi dove un modesto pareggio è di gran lunga più importante di una improbabile vittoria.
Belle parole, ma se Coldiretti in Italia e le corrispettive sigle in Europa, non riescono ad intercettare il malore della base, allora questo è quello che succede. Quando la politica è scollata dalla realtà, quando chi produce prodotti o servizi è l’unico a rischiare, e chi dovrebbe tutelare gli interessi dei consociati o cittadini è focalizzato sul mantenimento della propria posizione, prima o poi le sole belle parole o la gestione politica non basta più. È se anche la GDO, avesse un ricarico del 300%, in un mercato libero dove sarebbe il problema? Il profitto è legittimo. Se fosse un reato qualcuno dovrebbe legiferare. Questo per dire che solo grazie alla movimentazione della protesta dal basso, i trattori hanno ottenuto qualcosa, solo mettendo in crisi il sistema. Hanno avuto anche fin troppa pazienza nell’attendere una presa di posizione delle istituzioni preposte, che senza la spinta e la rabbia della base, penso non avrebbero chiesto e ottenuto nulla. Ergo, chi ci rappresenta si intesta il successo raggiunto grazie ad altri, vecchia storia.
La Coldiretti associa 1,6 milioni di agricoltori e ha la maggioranza assoluta delle imprese che operano nell’agricoltura italiana, con circa il 70% degli iscritti alle camere di commercio tra le organizzazioni di rappresentanza. Il resto è fuffa. Sulla GDO non sa di cosa parla.