Il “rischio” che si perdessero molti posti di lavoro ha accompagnato pandemia e ripartenza. Il peso di un comparto si è sempre calcolato per la sua incidenza sul PIL e dal numero di occupati impiegati. Ci sono sempre in gioco “migliaia di posti di lavoro” come conseguenza di ogni in-decisione politica. La “quantità” coinvolgibile è stata per lungo tempo il termometro del buon andamento o meno della società. Il lavoro purchessia, innanzitutto.
È un criterio di misurazione che viene da lontano. La stessa querelle sulla “congruità”delle eventuali offerte per superare il reddito di cittadinanza ne rappresenta una conferma. Quando si parla del lavoro degli “altri” la qualità dello stesso, la sua remunerazione, il grado di soddisfazione, per chi ne è coinvolto, rischia di passare in secondo piano. Averlo o non averlo ha sempre rappresentato il discrimine sociale principale.
Ma è ancora così? Oggi sembra esserlo sempre meno.
Dario Di Vico su Sette ha lanciato una proposta: riflettere sul tema per dare nuova forma al lavoro partendo da ciò che dal covid in poi è emerso dal basso e non sembra ancora essere intercettato né dalla rappresentanza sindacale né da quella datoriale se non in alcune realtà specifiche.
Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, pur mantenendo l’obiettivo della riduzione del cuneo fiscale alza il tiro e traduce questa esigenza partendo dal suo punto di osservazione. «Il lavoro non è più il vecchio scambio fordista tra orario e salario. È un’attività che va misurata sul risultato, a prescindere dal luogo in cui lo si presta e dall’orario» e, pur assegnando al contratto nazionale di lavoro il compito di presidiare i minimi salariali e i diritti del lavoratore evitando pericolose scivolate verso il salario minimo, rileva correttamente che «i nuovi profili tecnici del lavoro oggi non si trovano nelle vecchie tabelle d’inquadramento nazionale di ogni settore». Bonomi punta quindi a una profonda revisione dei CCNL, a un rilancio e a una diffusione dei contratti integrativi aziendali all’insegna della produttività da stimolare, di una retribuzione legata all’andamento aziendale e, perché no, differenziata sul territorio con un welfare tarato su misura dei lavoratori in base alle possibilità della singola impresa e agli interessi dei lavoratori coinvolti.
Temi questi che, se affrontati in questo modo, risultano ostici per le controparti sindacali ma anche per quei comparti economici dove la contrattazione aziendale (servizi e micro imprese) è vissuta più come foriera di problematiche che come opportunità e dove si preferiscono lontani contenitori nazionali per il salario ma anche per definire le regole del gioco e creare la massa critica necessaria per le diverse forme di welfare. Differenze tra comparti che pesano e rendono difficili sintesi comuni sul fronte datoriale.
Da parte sindacale permangono visioni differenti. Dalla CISL i segnali insistono verso la riproposizione di un modello partecipativo nel quale alcuni dei punti sollevati dal Presidente di Confindustria potrebbero trovare una ricomposizione o, quantomeno, una base di confronto serio. In una logica collaborativa si tende a privilegiare ciò su cui si concorda piuttosto che ricadere in un antagonismo che spinge a far leva sugli altalenanti rapporti di forza. Non credo, però, che da parte di CGIL e UIL ci sia un atteggiamento analogo. Soprattutto in tempi di alta inflazione. Un modello che privilegia o esclude sigle sindacali rappresentative non porta però da nessuna parte. Resta il terzo incomodo.
Quello sollevato da Dario Di Vico nel suo pezzo: la visione e gli obiettivi dei singoli lavoratori, soprattutto più giovani rispetto a ciò che sperano di trovare nel lavoro, come intendono vivere il loro rapporto con l’impresa in termini di investimento personale, di equilibrio tra lavoro e tempo libero, di riconoscimento del loro impegno in termini di retribuzione diretta e indiretta e di crescita professionale e come questo si integra ad un discorso collettivo tipico della rappresentanza sindacale.
Il problema oggi è che lo schema rigido creato dalle generazioni precedenti tramite le loro rappresentanze sta perdendo progressivamente peso specifico ma non riesce a individuare un interesse comune sufficiente a proporre nuove sintesi. E tutto ciò che porta ad un aumento di costi per le imprese senza contropartite serie resta materia di legittima quanto inutile propaganda fine a sé stessa.
Tutto il sindacato non è in grado di forzare la mano alle imprese e queste ultime hanno buon gioco a ributtare la palla nel campo avversario. Nel frattempo i lavoratori, soprattutto quelli più giovani ma non solo, reagiscono al contesto in termini individuali. Da qui le dimissioni alla ricerca di un lavoro che soddisfi maggiormente in termini di ruolo, possibilità di crescita, qualità, ambiente e superamento del tempo e del luogo o, addirittura, rifiuto di un lavoro perché ritenuto di scarso interesse sia nei contenuti che nella retribuzione.
La fatica che fanno molte imprese a trovare i lavoratori va ricercata in uno o nella combinazione di questi aspetti. Alcune aziende lo hanno capito e si sono predisposte per essere più attrattive. Altre si accontentano di ciò che il mercato del lavoro lascia a loro disposizione. Altre ancora non trovano o non sono in grado di trattenere le risorse migliori. Tra “è colpa del reddito di cittadinanza” o “i giovani non hanno voglia di lavorare” e “pagateli di più e sfruttateli di meno” c’è il nuovo mondo del lavoro.
Ed è un mondo che spinge per costruire sistemi più laschi, approcci più flessibili, gerarchie meno tradizionali, sistemi e modelli più attuali di ingaggio e di coinvolgimento. Le proposte di Carlo Bonomi viste dal singolo lavoratore e dalla singola impresa industriale appaiono ragionevoli. Salario e produttività, fatto salvo i minimi retributivi, dovrebbero procedere in sintonia, l’inquadramento deve essere aggiornato senza provocare squilibrio nei costi e le retribuzioni, se fossero influenzate dal costo della vita, nei territori porterebbero vantaggi per i lavoratori in alcune realtà e, probabilmente, investimenti e ritorno di produzioni delocalizzate altrove. Se però sono calate unilateralmente nel farraginoso sistema attuale suonano come “provocatorie” o, nel migliore dei casi, come un ritorno al passato.
Così come sono altrettanto ragionevoli sulla carta le proposte dei sindacati di tutt’altro segno che puntano a nuove tutele, a recuperare le perdite dell’inflazione, costruire o estendere un sistema universale di diritti, salvaguardare il criterio collettivo dell’inquadramento e magari ridurre l’orario o rimodularlo a parità di salario visti gli esempi di altri Paesi.
Così però non se ne esce e l’unica mediazione possibile è continuare a mettere una pezza dietro all’altra al sistema esistente. Anche per questo c’è chi crede che l’adozione del salario minimo, nel tempo, romperebbe questo schema creando la necessità di nuovi equilibri. Innanzitutto perché spingerebbe molte piccole imprese in quella direzione in alternativa ai CCNL di categoria che hanno decisamente costi maggiori.
La presenza già oggi di forme contrattuali spurie e l’assenza di certificazione sulla reale rappresentatività dei firmatari spingono diverse realtà in questa direzione. I ritardi dei rinnovi alle scadenze concordate e i contenuti degli stessi, non vengono percepiti come particolarmente vantaggiosi dai diretti interessati né creano attese o mobilitazioni particolarmente sentite. Pur con tutti i vincoli e i rischi evocati forse un sistema nuovo costruito intorno al salario minimo costringerebbe entrambe le parti a ridisegnare il proprio ruolo sia a livello centrale che locale.
Per ora l’alternativa è la semplice difesa del perimetro attuale. Sul resto prevalgono le rispettive rivendicazioni. Resta evidente che occorrerebbe una consapevolezza diversa tesa ad una evoluzione condivisa del sistema attuale che però non c’è e che dovrebbe necessariamente comprendere reciproci vantaggi. Altrimenti l’intero sistema costruito sulla logica dei semplici rapporti di forza oggi decisamente in mano alle imprese è destinato comunque ad un declino inevitabile.