La “provocazione” del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non va sottovalutata o banalizzata perché punta dritta al cuore di un punto importante dell’impianto contrattuale prendendo a pretesto l’argomento dell’orario di lavoro in rapporto alla retribuzione finale. Il soggetto, però, è l’impianto complessivo ritenuto sempre più costrittivo, non l’orario in sé. Ed è su questo che il Ministro ci invita a riflettere. È indubbio che il rapporto concreto tra CCNL e realtà normativa, giuridica e retributiva quotidiana delle imprese è sempre più distante. E questo sia per il singolo lavoratore che per i manager. Qualche accenno sulla lettera di assunzione (spesso con riferimenti comprensibili solo dagli addetti ai lavori) e il testo appeso in bacheca vicino alla macchinetta del caffè negli uffici o nei reparti. È un po’ come il Vangelo. Molti ne parlano ma pochi lo hanno letto. Vale anche per il CCNL. È argomento da tribunali, uffici vertenze, ispettorati del lavoro. Alcune volte da delegati della RSU che si “azzuffano” con le direzioni del personale nel disinteresse generale. Difficilmente lo è tra lavoratori. Ha perso quella valenza redistributiva che aveva in passato, non genera più alcun trasporto emotivo, senso di appartenenza e partecipazione quando si avvicina la data di scadenza. Anzi spesso le moratorie che si succedono con incessante regolarità rendono vaga anche la durata. Infine i contenuti che non mobilitano più le coscienze né creano particolari aspettative. Anzi. I lavoratori più sindacalizzati vivono spesso il rinnovo come un momento dove rischiano di essere messi in discussione prerogative e diritti ritenuti acquisiti. Le aziende generalmente lo applicano riservandosi di interpretarlo in modo abbastanza lasco, con la “complicità” più o meno consapevole dei diretti interessati. Minimi tabellari esclusi. Mansioni, livelli, straordinari, orari, ferie, permessi, ecc. trovano spesso un equilibrio specifico, azienda per azienda, ben diverso dal testo scritto. Le direzioni del personale non ne parlano volentieri. Non c’è una volontà a disattenderlo c’è un’interpretazione specifica che, generalmente, si è costruita nel tempo sul piano comportamentale e organizzativo che considera marginali e comprese nel costo complessivo le rare rivendicazioni postume. Nessuno, da molti anni, agisce e lavora in azienda con in mano il contratto nazionale. Da entrambe le parti. C’è un equilibrio accettabile o accettato. A volte subito. Ovviamente ci sono le eccezioni. Alcune aziende private in diversi settori (medio grandi), pubblico impiego e cooperazione. Questi ultimi due credo siano ormai gli unici dove il CCNL è applicato alla lettera e con confini invalicabili. Ma non è affatto detto che i lavoratori, in quelle realtà, stiano complessivamente meglio che altrove. Anzi.
Questa situazione si è creata per varie ragioni. Innanzitutto perché l’impianto organizzativo e sindacale tayloristico che lo ha prodotto nella seconda metà del 900 è in crisi e perché qualsiasi contratto non sarebbe comunque in grado di coprire le aree grigie tipiche dell’organizzazione aziendale e del rapporto di lavoro. In secondo luogo perché “l’ossessione” sui costi che ha pervaso le aziende ha spostato il confronto e il controllo sui piani di riorganizzazione/ristrutturazione o sulla preoccupazione che potessero essere messi in atto. Infine perché, in azienda, esiste un approccio diverso rispetto a quello dei luoghi dove i principi e i testi scritti sono l’elemento costitutivo come le direzioni del personale, le parti sociali, i giuslavoristi, gli avvocati del lavoro e i tribunali. Chiunque ha vissuto un po’ di anni in azienda sa che se si vuole complicare un problema occorre chiederne la soluzione dove il problema (organizzativo o individuale) non si è creato concretamente. È sempre stato così.. Queste ed altre riflessioni porterebbero a dire che ha ragione chi vuole sostituire il CCNL attraverso il suo decentramento a livello aziendale o territoriale. Personalmente sono contrario. Ovviamente non basta esserlo in modo acritico o conservatore. Occorre ridefinire il ruolo, i contenuti e i rimandi necessari. È questo, sarebbe opportuno che lo facciano le parti sociali. Ad oggi, il contratto del terziario, è l’unico che ha fatto un grande sforzo in questa direzione. E di questo va dato atto anche alle organizzazioni sindacali. In futuro penso ad un sistema con quattro contratti nazionali: industria, terziario, agricoltura e pubblico impiego contenenti le norme generali (ad esempio: ferie, malattia, inquadramento minimo, orario massimo, riferimento a norme di legge, ecc.), il minimo contrattuale nazionale legato, però, più ad una scala parametrale di ingresso che a livelli specifici) e, ovviamente, il welfare contrattuale. Impostandolo sull’essenzialità dei quattro grandi comparti forse non servirebbero altri contratti di riferimento (artigianato compreso). Questa impostazione, uguale su tutto il territorio nazionale, eviterebbe il dumping contrattuale e stabilirebbe norme generali uguali per tutti. Questo livello dovrebbe essere rinnovato ogni quattro anni. A livello di settore verrebbero stabilite le norme, valide esclusivamente in quel settore specifico. Questo livello potrebbe essere rinnovato ogni due anni. A cascata, a livello aziendale, verrebbero stabilite tutte quelle norme reversibili legate al rapporto di lavoro individuale e i sistemi di coinvolgimento e incentivazione. Perché reversibili? Perché la mansione può cambiare, in meglio o in peggio nel tempo. Così come le attitudini e le esigenze. Sul piano aziendale, poi, sono le commesse, i progetti, la stagionalità, i risultati a definire l’orario, la sua remunerazione e i sistemi premianti collegati. Su questo il ragionamento del Ministro Poletti non c’entra nulla con il cottimo o altro come sostenuto da Bertinotti o da qualche poco avveduto sindacalista. Cerca semplicemente di contemperare ciò che è riconducibile ad un sistema tradizionale con altre esperienze altrettanto importanti. Personalmente ho sempre pensato ad una retribuzione suddivisa in tre parti di cui una fissa (il minimo tabellare nazionale uguale per tutti) e due variabili (una legata alla professionalità espressa i cui riferimenti potrebbero essere di settore) è una all’andamento aziendale). E questo può essere definito in azienda, fatte salve le regole generali. Un sistema collaborativo e moderno non può che prevedere condivisione dei rischi ma anche dei risultati e quindi non può non essere reversibile. Le aziende del futuro sono luoghi dove il valore si crea attraverso il riconoscimento e la collaborazione. Non solo con le norme e i vincoli. Quindi la discussione sui livelli contrattuali non può non tenere conto che il problema fondamentale non è mettere in alternativa un livello all’altro ma creare un sistema che lascia libere le parti di trovare le soluzioni più idonee all’interno di un quadro di riferimento che eviti abusi, dumping tra aziende, sfruttamento e forzature inutili. Le aziende hanno bisogno di muoversi con maggiore rapidità ed efficacia rispetto ad un mercato sempre più globale ma non hanno alcun interesse a penalizzare le loro risorse che sono sempre più fondamentali e in grado di fare la vera differenza competitiva. E, infine, occorre prendere atto che solo un nuovo modello di relazioni sindacali più collaborative, come emerge anche dalla recente ricerca di Federmeccanica, può essere alternativo al sistema attuale che ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e che rischia di essere sempre più inviso alle aziende e sempre meno interessante per i lavoratori.