L’incontro di oggi tra Confindustria e sindacati confederali potrebbe rischiare di essere una non notizia. Solo Dario Di Vico lo segnala in prima pagina sul Corriere pur non nutrendo particolare ottimismo sul suo possibile esito (https://bit.ly/2R0e7GH).
È indubbio che uno degli effetti collaterali del Covid-19 è stato di aggravare lo stato di salute di un sistema relazionale proprio perché erano già presenti sintomi di patologie degenerative.
Innanzitutto occorre sottolineare che il processo di ritorno nei propri recinti associativi di ciascuna confederazione ha coinvolto tutte le parti sociali. Il calo degli associati e degli iscritti ha spinto le rispettive leadership a derive identitarie e a scelte conservatrici.
Solo Confindustria ha cercato, con la scelta di Carlo Bonomi, di sottrarsi all’inevitabile traiettoria perché è l’unica, tra le confederazioni, a dover fare i conti con l’irrequietudine dei propri associati e quindi con la necessità di cavalcare il cambiamento imposto dalla globalizzazione. Ma anche lì temo che il dibattito sul livello di irruenza necessaria sia tutt’altro che concluso.
Tutti gli altri si sono accomodati nelle rispettive trincee in una posizione puramente difensiva sperando di lucrare nel rapporto “uno a uno” con la politica migliori condizioni di sopravvivenza. È un fenomeno che ha a che fare con la disintermediazione.
Studiata e dibattuta se proveniente dal rapporto con la politica, meno se, con la fine della classica concertazione, sale dal basso, nutrendosi del disimpegno di partecipazione degli associati e degli iscritti, alimentata dall’autoreferenzialità dei suoi gruppi dirigenti e dalla mancanza di nuovi interpreti capaci di guardare oltre l’orizzonte.
Per la politica soprattutto per quella di oggi che si legittima proprio cercando di instaurare un rapporto diretto con i cittadini, al lavoro o nella necessità di essere sussidiati, non è stato difficile occuparne lo spazio. Il lockdown ha addirittura accelerato questo fenomeno spingendo le parti sociali verso ruoli marginali. O di sterile denuncia dell’immobilismo o di richiesta di spostare risorse nella propria direzione per venderle ai rispettivi associati come risultato della propria iniziativa e quindi di semplice legittimazione.
Non è un caso che oggi in campo, più che le iniziative concrete, ci siano i rispettivi centri studi. L’unico modo per essere presenti nella bolla mediatica e far parlare di sé pur non andando mai a dama. Nessuno si sta preparando per quando i nodi arriveranno al pettine.
E infatti l’obiettivo di buona parte di loro è tenere sotto narcotico la situazione più a lungo possibile o fantasticare su nuovi modelli di sviluppo o soluzioni semplici per problemi complessi. Il mancato rinnovo dei contratti, il blocco dei licenziamenti, la crisi che sta mettendo in ginocchio diversi settori, la mancanza di una visione comune (sindacati e imprese) di come affrontare la fase di ripresa e rilancio apre, purtroppo, a pericolosi scenari di contrapposizione sociale e politica.
Evitarli dovrebbe essere l’obiettivo delle parti sociali. L’incontro di oggi è, a mio parere, molto importante. È una sorta di campanella che segnala che la ricreazione è finita. Se l’incontro stesso terminerà tra accuse reciproche, o si tradurrà in un inutile documento privo di contenuti concreti sarà un’occasione persa.
La traccia delle cose da fare peraltro l’ha già scritta Mario Draghi e, in parte Vittorio Colao. Gli stessi contratti nazionali possono contribuire a prefigurare i prossimi anni sia in termini di recupero e riconoscimento della produttività che in termini di welfare, formazione, tempi e luoghi di lavoro.
Una sorta di “piano Marshall” per costruire, insieme, il futuro del Paese. Saranno all’altezza della sfida che li attende? Personalmente credo che l’interesse del Paese lo richiederebbe.