C’è chi osserva il bicchiere mezzo pieno e ne valuta la qualità e l’innovazione laddove viene praticata. C’è chi osserva l’insieme delle imprese italiane e ne intuisce un evidente declino. La contrattazione decentrata o aziendale sembra essere diventata come la Bella di Torriglia che “tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia”. Il mainstream imperante la individua come un passaggio decisivo e naturale delle relazioni industriali 4.0.
Ogni giorno si leggono di accordi aziendali in numerose imprese che testimonierebbero una ripresa di interesse sul tema. Gli esperti della materia la indicano come la strada maestra da percorrere. Confindustria e le sue federazioni di categoria la ribadiscono in ogni contratto nazionale. La stessa Commissione europea l’ha individuata come una strada decisiva da percorrere e non a caso aveva salutato positivamente l’accordo del marzo 2018 tra Confindustria e i tre sindacati confederali che tra gli altri obiettivi mirava ad ampliare la contrattazione di secondo livello.
La logica stessa porterebbe ad individuare l’azienda come l’elemento centrale del confronto tra le parti. “Le persone al centro”, la loro importanza nell’evoluzione del’impresa e del lavoro, le sfide che raccontano sostantivi che vanno oltre il taylorismo novecentesco come merito, responsabilità, impegno, condivisione, impongono declinazioni intermediate esclusivamente con l’attuale rappresentanza dei lavoratori o ne richiedono un’evoluzione che non c’è ancora?
E, laddove si raggiungono gli stessi accordi innovativi, qual’è il peso e il ruolo effettivo della rappresentanza sindacale nel porre o modificare le intenzioni già presenti nelle strategie e nelle disponibilità aziendali? In altri termini il cosiddetto “totalismo aziendale” e cioè la volontà dell’azienda di essere autosufficiente anche nelle sue varianti apparentemente disponibili alla negoziazione quanto nasconde la capacità del sindacato di dimostrarsi interprete e interlocutore attendibile del “nuovo che avanza”?
Se prendiamo il complesso dei settori economici la contrattazione aziendale, soprattutto quella più marcatamente innovativa è in caduta libera da anni. Aggiungo che la stessa contrattazione nazionale registra ritardi sempre più marcati sulle scadenze concordate che segnalano anch’esse la crisi di un sistema tutt’altro che in ripresa nonostante qualche acuto in alcune realtà categoriali. La contrattazione decentrata è presente a macchia di leopardo in determinate zone o in grandi imprese spesso più come una tradizione del passato che come una scelta condivisa e consapevole.
Quando raggiunge il suo scopo nelle imprese più innovative o disponibili al confronto costruttivo è “win win”, spesso è causata da problemi riorganizzativi seri nei quali il coinvolgimento del sindacato è fondamentale per la stessa gestione delle conseguenze, altre volte è dichiaratamente di natura “restitutiva” o “concessiva” perché mira a rimettere in discussione elementi di rigidità o a rimodulare costi o vincoli sulla gestione delle persone. Il quadro generale di riferimento nel quale il modello attuale si è da tempo inserito è un deciso spostamento di parte del rischio di impresa sul lavoro rispetto ai modelli novecenteschi.
Certo ci sono eccezioni anche importanti ma la tendenza evidenzia uno scarso interesse della generalità delle imprese ad aderire alle sollecitazioni in questa direzione anche della loro stessa rappresentanza. Ma cosa spinge le imprese a chiudersi a riccio su questo terreno?
Innanzitutto il management della stragrande maggioranza delle aziende si è riorganizzato nel tempo riducendo il peso delle relazioni sindacali e quindi spesso non è strutturato per una interlocuzione diretta e continua. Le direzioni risorse umane sono state ridimensionate in questa area specifica nel ruolo ma soprattutto nel loro peso politico in azienda.
Spesso la materia è delegata all’esterno presso studi legali, consulenti del lavoro o presso le associazioni datoriali che intermediano il rapporto con i sindacati ma, ovviamente, è altra cosa rispetto ad un coinvolgimento di un’autorevole e riconosciuta gestione interna. Questo rafforza inevitabilmente la convinzione nel top management ma anche in quello intermedio che le relazioni sindacali non siano fondamentali né prioritarie.
Anzi, questa lontananza spesso conferma l’idea che si tratti di un’attività che crea più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Nel top management si parla volentieri dei propri collaboratori e del loro sviluppo, poco e male della loro (se presente) rappresentanza sindacale. Una seconda evidenza è che i sindacati nei territori preferiscono “frequentare” le imprese che ne accettano l’interlocuzione.
Nelle altre, che sono la stragrande maggioranza, preferiscono non insistere salvo non abbiano un alto valore mediatico per il nome dell’azienda o per il comparto. Il recente caso di Amazon è paradigmatico. Il sindacato di un settore particolare dove tra cooperative spurie, COBAS e lavoro nero ci sarebbe molto da fare si concentra su un’azienda che al contrario assume, applica un CCNL migliorativo e consente opportunità di crescita professionale. E poi si stupisce se allo sciopero indetto partecipa una assoluta minoranza di lavoratori buona parte dei quali è addirittura parte dell’indotto.
Le direzioni risorse umane, al di là delle formalità di rito, mantengono relazioni più con lo scopo di tenere lontano problematiche scomode. Gli stessi sindacati territoriali non sollecitano confronti se non richiesti dall’interno per questioni specifiche.
Voltare pagina in queste condizioni non è semplice. E non bastano gli appelli. Né i richiami dall’Europa. Opportunità di sviluppo professionale, riconoscimenti economici, formule di coinvolgimento e comunicazione efficace sono pane quotidiano nelle imprese di ogni dimensione e non prevedono necessariamente l’interlocuzione con il sindacato esterno.
Il limite del “totalismo aziendale” è che funziona solo in fase di crescita. Cultura, valori, missione dell’impresa trovano terreno fertile nelle persone quando le cose vanno bene. Tutti (o quasi) si sentono ingaggiati. O quanto meno convinti che essere trattati bene ed avere un posto sicuro è motivo più che sufficiente per sentirsi tranquillo. Un giusto salario contrattuale, un premio di risultato o di produttività, una prospettiva di crescita professionale di questi tempi sono comunque merce rara.
Non è facile per una parte del sindacato ritarare linguaggi, azione e professionalità in contesti di questo tipo. Le stesse aziende sbagliano a non attrezzarsi sul lungo termine e quindi ad investire su un sistema che per cambiare in meglio ha bisogno di entrambe le parti. Si resta ancorati ai rapporti di forza e alla legge del pendolo oggi favorevole all’impresa. E questo frena la definizione di nuovi perimetri di confronto costruttivo.
Personalmente credo che anziché auspicare periodicamente l’interesse per le imprese e l’ineluttabilità della contrattazione decentrata si dovrebbe analizzarne più spesso le ragioni del suo rallentamento negli anni prodotta dall’evoluzione dei sistemi di gestione del personale e dall’evidente sovrapposizione di parte dei costi e di materie con la contrattazione nazionale.
Aggiungo che il continuare a evocarne un modello tradizionale accompagnato da una retorica inconcludente per una parte del movimento sindacale (il rodato obiettivo, lotta e risultato) costruito quando la contrattazione aziendale si occupava semplicemente di integrare la contrattazione nazionale anticipandone gli obiettivi generali non porta da nessuna parte.
Oggi l’interesse comune dovrebbe essere quello di accompagnare l’impresa nelle sue sfide considerando che queste ultime appartengono a tutti coloro che vivono in quel perimetro e che obiettivi aziendali, interessi, tutele e prospettive devono ricomporsi in quella sede. Forse da questo occorrerebbe (ri)partire.