Non credo che si possa immaginare il futuro della Grande Distribuzione limitandosi a ciò che una singola insegna può o dovrebbe fare. Il dibattito però sembra puntare sempre lì. Più tecnologia, maggiore consapevolezza nel consumatore, consegna a domicilio, sostenibilità, etica nel business, contenimento del costo del lavoro, qualità dell’assortimento, promozioni, ecc. E, come auspicio condiviso, maggior integrazione nelle filiere e rispetto per ciò che sta a monte.
Chi più, chi meno, su questa prospettiva si sono ormai incamminate quasi tutte le catene più importanti. È certamente un percorso necessario ma non sufficiente. Tutte le insegne, come si dice in questi casi, sono concentrate sull’albero correndo così il rischio di perdere di vista la “foresta”.
E, nella foresta, ci metto il valore e il futuro della filiera agroalimentare italiana con il peso che la GDO potrebbe giocare o meno, il mercato globale, le concentrazioni come leva indispensabile per crescere, le alleanze su Paesi o su progetti internazionali, il ruolo pubblico/privato nella possibile promozione del Made in Italy, gli investimenti e le strategie necessari per competere con i giganti della rete, la formazione di un management adeguato a queste sfide.
Quante insegne nazionali sono in grado di rispondere (da sole) su questi terreni? Alcune di loro sono indubbiamente molto performanti nei territori dove sono insediate impegnate a giocare una partita pur importante, sulla qualità del servizio, sulle promozioni, sulla convenienza e sui costi. Su questo terreno vince però l’aggressività, non la visione.
Adesso il tema è la spregiudicatezza di alcuni discount. Con le angurie di Eurospin si è sfiorata la rissa da cortile. Costo del prodotto, convenienza, comunicazione e costo del lavoro. Siamo purtroppo sempre lì.
Nella GDO convivono due grandi agglomerati “culturali”. Da una parte i “bottegai” grandi o piccoli (detto con grande rispetto) sempre animati da una logica legata a ciò che resta nel “cassetto” a fine giornata. Ossessionati dai costi e disposti a tutto per competere. Il 900 e le sue logiche di crescita continua hanno dato loro ragione e quindi insistono nelle loro convinzioni. Dall’altra, coloro che vogliono svilupparsi, affrancandosi da quella cultura in un contesto di nuove modalità di business.
Chi sceglie di associarsi, di mettere a fattor comune esperienze, idee, progetti e destino è comunque, a mio parere, dalla parte di chi vuole evolvere e guardare oltre l’interesse immediato. Però da queste logiche si esce in avanti solo provando a giocare un’altra partita per la quale serve concentrarsi ancora di più (pur in vario modo), sviluppare alleanze nella filiera a monte ma anche a livello internazionale, investire risorse, creare nuove strategie anche attraverso un riposizionamento della MDD. Posizionarsi a livello di vera interlocuzione politica e istituzionale sullo sviluppo possibile e non solo sulla difesa dell’esistente (vedi, ad esempio, l’interessante proposta di Luigi Scordamaglia di Filiera Italia sulla necessità di un Ministero dell’alimentazione).
Pensare alla “foresta”, dunque, pur da diversi punti di attacco dotandosi di una strategia comune. Poi qualcuno dovrebbe avere il compito di “unire i puntini”.
Concentrarsi per crescere, in tutti i modi possibili, è il primo passo. Il secondo passo è, a mio parere, creare o condividere una piattaforma comune per le imprese italiane disponibili che partendo dalla filiera agroalimentare puntino al mondo.
Un “progetto Paese”. Le risorse e le necessità del post lockdown lo potrebbero consentire. Ė una sorta di ultimo treno che passa. O si sale o si resta chiusi nel proprio cortile. La stessa “crisi” di FICO, ad esempio, imporrebbe un ripensamento strategico di quella che resta ancora una grande idea che però rischia di non avere gambe sufficienti per imporsi. Il futuro della filiera agroalimentare italiana nel mondo non può giocarsi su uno dei suoi due asset principali: la ristorazione. Il retail, così com’è, non può funzionare. Non ha visione né strategia adeguata.
Manca il DNA della Grande Distribuzione e della filiera agroalimentare complessiva. È un’impresa solitaria, furba, intelligente, destinata però a non riuscire a finalizzare interessi diversi. Non è dove è localizzato il parco divertimenti la questione centrale. Anzi. Milano, Expo a parte, non c’entra nulla con la food valley evocata da quella regione e la vocazione di quei territori. Né i turisti che vi transitano hanno in testa il Food.
L’Emilia Romagna può e deve giocare una grande partita come hub dell’alimentare per l’intero Paese. Inutile pensare strade diverse. C’è probabilmente da progettare un luogo, seppure con caratteristiche diverse, anche nel sud per valorizzarne cultura e produzioni lavorando semmai sul concetto di ciò che è utile alle comunità che lo ospita con un occhio ai suoi interessi complessivi.
Il punto è che i prezzi di FICO sono fuori dal mondo, manca una linea entry level e Farinetti da solo non può andare da nessuna parte. Come sempre. È un innovatore, un visionario, ma l’agroalimentare italiano ha bisogno di altro.
Credo che le alternative non siano molte. O attendere che qualche gruppo multinazionale si faccia avanti stravolgendo l’intuizione che ha generato questo progetto o metterne a fattor comune i suoi punti di forza. Una grande piattaforma condivisa che guarda al mondo attraverso un rilancio dell’intera filiera con alle spalle un intreccio positivo pubblico/privato.
È un asset importante del Paese che andrebbe gestito anche nell’interesse stesso del Paese in un contesto non solo di business enogastronomico turistico o elitario ma all’interno di una logica di retail integrata e moderna. Online e offline.
Guardare l’albero immaginando la foresta, quindi. Questa è la sfida per chi nella GDO italiana vuole pensare più in grande. Aprirsi alla filiera, fare business contribuendo a creare le condizioni per una affermazione nel mondo delle nostre imprese.