Il lavoro invisibile tra indifferenza, razzismo e dignità

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“Il razzismo spiegato a mia figlia” è un importante romanzo dello scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun. Lo consiglio a tutti coloro che, nella foga di cavarsela a buon prezzo sul tema, se la sono presa con i giocatori della nazionale che, spontaneamente o meno, sembra si vogliano sottrarre a quel rito collettivo ormai abusato e affatto spontaneo dell’ inginocchiarsi per protestare a buon mercato contro il razzismo a favore di telecamera. 

Mentre il dibattito tra favorevoli e contrari montava sui social, Camara Fantamadi, un ragazzo di 27 anni originario del Mali veniva stroncato da un malore dopo aver zappato la terra per oltre quattro ore, in una giornata di afa terribile, nelle campagne di Tuturano a pochi chilometri da Brindisi. Tanto terribile da spingere sia il sindaco di Nardò, che quello di Brindisi, subito dopo il fatto, ad emanare un’ordinanza a tutela dei braccianti per vietare il lavoro nei campi dalle 12.30 alle 16. Sei euro l’ora per raccogliere pomodori, angurie e uva in condizioni estreme. Il razzismo quello che spetta a noi combattere e non ai calciatori della nazionale ce l’abbiamo purtroppo in casa. Ed è, in parte, un succedaneo  della nostra indifferenza.

Ha le sembianze del facchino della cooperativa spuria, del rider irregolare, del bracciante spesso in nero. Pure di quello che insiste per riporre al nostro posto il carrello vuoto al supermercato per poter trattenere la moneta da un euro. Appartengono tutti alla schiera degli invisibili. Sopra di loro c’è chi li sfrutta quando non gli riconosce una paga contrattuale, tutele e diritti da Paese civile, rispetto e dignità. 

Per risolvere il problema del razzismo di casa nostra non dobbiamo prendercela con i “giocatori milionari”. Troppo comodo. Dobbiamo semplicemente fare i conti con l’indifferenza e con la  coscienza, spesso assente, della nostra società. 

Poco dopo la morte a Biandrate del sindacalista del SICOBAS investito da un camionista esasperato c’è stata una levata di scudi collettiva con un obiettivo sbagliato: il comparto della logistica, la sua organizzazione del lavoro e degli appalti, l’algoritmo maledetto. Come era successo sui rider. Se non vuoi risolvere il problema, spara nel mucchio. Il ministro del lavoro ha subito proposto una task force e indicato il bersaglio. Affrontato così però  non si arriverà a nulla. 

Così come non si è arrivati  a nulla da decenni sul lavoro nei campi dove si continua a pensare che la soluzione sta in capo alla GDO e non nella struttura di un tessuto imprenditoriale fatiscente e spregiudicato che si è insinuato negli interstizi e aggravato dalle opportunità offerte da legislazioni lasche e controlli evanescenti che hanno consentito di scaricare sempre più sull’elemento più debole, il lavoro, buona parte del rischio di impresa. 

Chi lavora alla luce del sole conosce benissimo questi lati oscuri. Le intermediazioni, i subappalti, la gestione degli addetti, i caporali,  le clausole di responsabilità contenute nei contratti, la stessa disciplina del “cambio appalto” nata con la finalità di tutela dei lavoratori si può trasformare essa stessa in un boomerang che impedisce agli appaltatori subentranti di riorganizzare gli appalti e di riportare logiche di legalità in contesti lavorativi nei quali sono ormai radicate da anni logiche di “far west”. 

E, purtroppo, non si può pensare che la soluzione possa essere affidata a chi è parte del problema. 

Occorrerebbe muoversi su più piani. Innanzitutto se non si riesce a mettere mano in tempi ragionevolmente brevi al tema della rappresentanza occorre introdurre, almeno sperimentalmente, il salario minimo. Sono settori caratterizzati da imprese spesso fatiscenti e con una vita media molto bassa. 

I controlli pur necessari rischiano di essere inutili. Inoltre, per i lavoratori stessi un riferimento retributivo semplice, consentirebbe loro di reagire allo sfruttamento e al nero che alimenta rischiose complicità. 

In secondo luogo occorre definire un modo chiaro i confini, la natura e la logica di ciò che è cooperativa e di ciò che è altra cosa. Infine occorre introdurre una maggiore responsabilità del committente e assicurare controlli costanti. Ad oggi è stata l’indifferenza generale a rendere possibile quest’area grigia dove è successo un po’ di tutto. 

Riportarla ad una nuova normalità comporta innanzitutto l’assunzione di responsabilità di tutti i componenti delle diverse filiere. Altrimenti dobbiamo solo sederci in attesa della prossima disgrazia. 

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