La vicenda dell’arresto di un esponente del SI Cobas a Modena porta alla luce ancora una volta quell’area del lavoro di confine dove non esistono regole né contratti né rispetto per la persona lontano dal controllo delle imprese sane e del sindacato confederale e fondamentalmente in balia di se stesso.
Coinvolge lavoratori immigrati, giovani (soprattutto in certe aree del sud) che abbandonano gli studi, donne che cercano di rientrare nel mercato del lavoro, over 50 espulsi dalle aziende, giovani in attesa di trovare una occupazione. Disoccupati, pensionati o assistiti a vario titolo. Pagati in nero, sottopagati, costretti a subire tagli della retribuzione per “servizi” imposti dal caporale di turno o per restituire all'”imprenditore” parte del guadagno come “ringraziamento” per l’assunzione.
Che lo si voglia ammettere o meno, un terzo della nostra economia, ogni giorno costringe centinaia di migliaia di persone a lavorare sul confine che passa tra legalità formale e illegalità sostanziale. Ben oltre i voucher, ben oltre la gig economy, ben oltre il cosiddetto lavoro povero, seppur contrattualizzato. In questo mondo agiscono intermediari, “scafisti” da terra ferma, imprenditori senza scrupoli, prestanome di attività legali, malavitosi che gestiscono direttamente attività economiche. Ma anche una forma di sindacalismo di confine.
Fatto di minacce, ricatti, strumentalizzazioni. Una forma di sindacato che non si nutre di slogan estremisti né si colloca a sinistra di altri sindacati quando opera concretamente. Funziona sul modello collaudato obiettivo-lotta-risultato. Dove l’obiettivo serve per creare la massa di manovra, la lotta sempre breve ma intensa perché portata anche fuori dai confini della legalità e un risultato che deve essere sufficiente a creare le condizioni per essere riproducibile altrove. Sempre per piccoli gruppi.
È una forma di “guerriglia” permanente dove furti, spaccio, danni e botte ai “crumiri”, minacce ad altre etnie, a capi sono ritenuti effetti collaterali accettabili integrabili con blocchi delle merci e danni di ogni tipo, anche gravi, a terzi. Ovviamente il tutto in orari, situazioni e realtà difficili da garantire un intervento in tempi rapidi dalle forze dell’ordine e dallo stesso controllo delle aziende coinvolte che spesso si piegano a questa logica innescando un meccanismo inarrestabile.
È una terra di nessuno dove avviene di tutto nel silenzio generale. Emerge sempre più spesso nei magazzini della logistica del nord, nelle attività “legali” della malavita organizzata, nell’edilizia, nell’agricoltura ma anche in attività di servizio alle imprese o in piccole attività commerciali danneggiando pesantemente chi opera nel rispetto delle regole.
Al di là di come si concluderà la vicenda di Modena questa è una realtà sulla quale occorrerebbe accendere i riflettori. Innanzitutto perché questo fenomeno non si sta affatto restringendo ma è destinato ad aumentare.
La profondità della crisi, la possibile ripresa senza crescita occupazionale, la ramificazione territoriale dei fenomeni malavitosi, l’affermarsi di attività distributive fondamentali quanto fragili dal punto di vista organizzativo e di gestione del personale, i fenomeni migratori aumentano notevolmente la differenza tra cosiddetti garantiti e non garantiti rendendo sempre meno percepibile il confine tra lecito e illecito così come la necessità di garantirsi un reddito comunque messo insieme.
Se a questo aggiungiamo che (secondo i dati pubblicati ieri dal sole 24ore) “a fine 2016 oltre metà degli occupati dipendenti risultano ancora in attesa di un rinnovo contrattuale (il 50,5% per l’esattezza) e sempre a dicembre, l’attesa media di un rinnovo calcolata sul totale dei dipendenti è di 27,1 mesi, in crescita rispetto ai 22 mesi di un anno fa”. Ci rendiamo conto che la situazione rischia di creare un innesco molto pericoloso al quale non di può rispondere con i timidi segnali di controtendenza emersi sul piano economico e occupazionale.
Pensare di affrontare questa situazione con la “carta dei diritti” proposta dalla CGIL in solitaria o chiamando al referendum su voucher e appalti è come voler affrontare una polmonite con l’aspirina. In un Paese dove oggi un terzo dell’economia reale non rispetta alcunché che senso ha voler continuare a colpire chi, le regole, pur in situazioni di grande difficoltà, cerca di rispettarle? E per colpire quel terzo, a mio parere, occorrerebbe una convergenza di tutto il Paese.
Le nuove regole andrebbero concordate e proposte insieme, da tutte le organizzazioni di rappresentanza, per essere efficaci. Non servono fughe in avanti. Pensare di superare le proprie difficoltà organizzative (rinnovi contrattuali, adesioni marginali agli scioperi proclamati nel privato, declino organizzativo, ecc.) lanciando la palla nel campo della sinistra politica e parlamentare aumentandone la confusione serve solo ad aprire ancora di più uno spazio di iniziativa a chi ritiene di poterlo occupare con maggiore diritto perché in grado di reinterpretarlo aggiornandolo e finalizzandolo proprio a disintermediare e quindi mettere in difficoltà le organizzazioni di rappresentanza.
In nessun Paese del mondo si è riusciti a riportare indietro l’orologio del tempo a favore dei “vinti” della globalizzazione con la cultura del 900. Anzi. Bernie Sanders e Jeremy Corbin sono lì a dimostrare cosa succede immediatamente dopo quando si insiste a voler occupare con vecchi discorsi uno spazio politico quando il vento soffia altrove.