I problemi ci sono e sarebbe sbagliato negarli. Tra l’altro, in rete, il dibattito sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro è sempre al calor bianco.
Candidati che non trovano lavoro e selezionatori che lamentano la mancanza delle figure professionali ricercate si scontrano quotidianamente e, quasi sempre, finisce ad insulti contro i selezionatori.
I dati però sono inoppugnabili: molte aziende non riescono a trovare quello che stanno cercando. Il mondo del lavoro, oggi, pretende una velocità di inserimento e di adattamento e molto spesso non trova nella scuola una sintonia sufficiente. Tecnica o professionale che sia. E, sempre oggi, le imprese devono fare i conti con problemi sia qualitativi che quantitativi.
Dario Di Vico sul Corriere fa bene a raccontare gli effetti di questo mismatching ( http://bit.ly/2muI81B ). Ma sono le cause che non vengono affrontate con sufficiente realismo.
La colpa sembra essere esclusivamente della scuola, delle famiglie e dei giovani. La scuola, lo abbiamo già visto, non sarebbe in grado di accompagnare la velocità del cambiamento delle imprese.
Le famiglie che spesso “insistono” nel considerare per i propri figli i licei più che le scuole tecniche e professionali e i giovani, sempre meno disposti a sacrificarsi o ad accettare magre retribuzioni di ingresso.
Sembra che nessuno voglia affrontare l’origine di un problema che è, per buona parte, in capo alle imprese. Soprattutto industriali.
Fino agli anni 70/80 del secolo scorso il rapporto tra il mondo aziendale e gli istituti tecnici e professionali era costruttivo. C’erano continui scambi tra i due mondi. Famiglie e giovani conoscevano in partenza, una volta scelto il percorso, lo sbocco finale.
Gli anni della crisi (dal 90 in poi) hanno incrinato questo rapporto. Le aziende industriali impegnate nelle loro ristrutturazioni hanno rotto unilateralmente quel rapporto lasciando al loro destino quasi tutte queste scuole che si sono trovate improvvisamente senza punti di riferimento.
Non è stato però così in tutti i settori. Nel commercio, ad esempio, le associazioni territoriali e di categoria hanno continuato ad integrare la formazione scolastica con le necessità delle piccole imprese del settore.
Si sono dotati di strumenti e mezzi idonei, coinvolgendo gli imprenditori dei diversi comparti. Hanno attivato un rapporto costruttivo con le scuole professionali, offerto momenti formativi idonei, sollecitato le imprese a farsi parte di quei progetti.
Hanno utilizzato, canalizzandoli, i fondi per la formazione e oggi manifestano problemi nettamente inferiori nel reperimento delle figure necessarie pur non potendo proporre mestieri e retribuzioni accattivanti. E stiamo parlando di decine di migliaia di persone che, ogni anno, si impratichiscono in quei mestieri.
Il comparto industriale con le sue associazioni territoriali si è sostanzialmente ritirato da quel mondo. È rimasto presente solo laddove ha trovato imprenditori lungimiranti e rappresentanti di associazione che li hanno sostenuti. Troppi pochi per accompagnare il cambiamento e recuperare il declino.
Il rapporto con la scuola, e qui sta il punto, non può essere strumentale. Né a senso unico. Altrimenti non può funzionare. Sia per il mismatching che per l’alternanza così come nell’offerta di stage a fondo perduto.
Occorre assumersi delle precise responsabilità. Oggi, purtroppo, scontiamo anche questa strumentalità. Per recuperare la situazione occorre muoversi su diversi piani e in modo coordinato. Soprattutto nei territori.
Non basta guardare alla Germania. Lì imprese, scuola e istituzioni hanno sempre lavorato insieme guardando lontano.