Il rinnovo del contratto nazionale di qualsiasi categoria, rischia, negli anni, di assomigliarsi sempre nelle liturgie che lo accompagnano, Nessuna evoluzione particolare all’orizzonte. Il punto è che, se si vuole cambiare, passando da un sistema sostanzialmente rivendicativo/conflittuale ad un’altro, maggiormente collaborativo, le modalità, la comunicazione, le forme di composizione e di dissenso vanno riviste profondamente. Ad esempio come si può pensare di “chiamare alla lotta” per costringere la controparte a forme maggiori di partecipazione? Oppure a costruire e condividere pezzi importanti di gestione del welfare contrattuale? Oppure ad avere uno sbilanciamento dei costi sul livello nazionale e chiedere contemporaneamente un maggiore decentramento della contrattazione? E potrei proseguire con altri esempi. Questa impostazione che lo si voglia o no, è tipica di una cultura che vede nel conflitto uno strumento ancora in grado di modificare sostanzialmente la posizione della controparte (e non è più così da tempo) accompagnata da una comunicazione altrettanto tradizionale che cerca di banalizzare le posizioni di una controparte con cui si vorrebbe costruire una strategia diversa. Tutti sanno che il costo complessivo di un contratto è calcolato minuziosamente dalle imprese. Solo le contropartite, la dimensione delle tranche, le modalità e la durata sono evidentemente mobili e, solo in questo modo, si potrà individuare un bilanciamento con le richieste; per questo condividere la direzione di marcia è più importante delle distanze sui singoli punti. Ed è per questa ragione che, l’unico modo di “mettere in difficoltà” una controparte, resta nella capacità di presentare controproposte credibili e praticabili che rispettino una strategia complessiva. Quando si trovano queste soluzioni parziali, di solito, il negoziato fa degli utili passi in avanti. Credo sia evidente a tutti che i rapporti di forza sono cambiati. Così come è evidente che la piattaforma prevalente, sulla quale il confronto avviene, è sempre più spesso quella datoriale. Quindi è solo la capacità propositiva e non la minaccia del conflitto in sé che può modificare i comportamenti. Soprattutto quando questi scontano anche elementi esterni al tavolo negoziale. A volte prendere tempo non è perdere tempo. Soprattutto quando continuano ad esistere profonde differenze strategiche nello stesso sindacato. Una strategia unitaria esclusivamente difensiva è destinata a non percorrere nuove strade ma di portare tutti su di un binario morto. Occorre indicare con chiarezza dove si vuole andare, con chi e con quali obiettivi. E questo non lo si ottiene sommando le rispettive debolezze o illudendosi di poter riprendere uno spazio sociale messo definitivamente in crisi dalla globalizzazione e dal contesto sociale e politico. Occorre ben altro. La contrattazione, è evidente, resta comunque la ragion d’essere di un sindacato. I suoi contenuti e le modalità con cui vengono sviluppati e realizzati caratterizzano la qualità dei dirigenti e la loro capacità di interpretare e accompagnare il cambiamento preparando il futuro. In entrambi i campi quindi non solo tra i sindacati dei lavoratori. E, di questa qualità, lungimiranza e convergenza il nostro Paese, oggi, ne ha un gran bisogno.