L’ipotesi è allettante per chi punta ad un rinnovo rapido quanto foriera di ulteriori conseguenze. Dirottare parte delle risorse in arrivo per detassare i contratti nazionali aperti. Lo accenna in modo problematico Dario Di Vico (https://bit.ly/3lvMRwC) ma l’argomento è presente nelle intenzioni di molti negoziatori di lungo corso.
L’idea in fondo è semplice e spesso praticata in passato in varie forme: alzare la tensione in un momento di per sé già difficile per il Paese per costringere il convitato di pietra (lo Stato) ad intervenire. Con buona pace degli outsider, e della agognata riforma fiscale. E con il rischio di trasformare le risorse disponibili per la ripartenza in una sorta di indennizzo generalizzato riservato a chi, nel lavoro autonomo e dipendente, può far valere la propria voce.
I contratti nazionali, per le parti sociali, dovrebbero avere ben altro destino rispetto alla ricerca di un rinnovo “obtorto collo”. Dovrebbero essere parte della soluzione. Non certo del problema. Anche perché lo strascico negativo che rischierebbero di lasciare dietro di sé, a fronte di un rinnovo raffazzonato, è destinato a coprire un arco temporale nel quale l’innovazione o l’involuzione del sistema di relazioni industriali completerà il suo percorso.
Il clima, purtroppo, non è dei migliori. Il lockdown ha “spaventato” il mondo delle imprese. Lo ha preso alla sprovvista e, in molti settori, le prospettive non sono affatto rosee. Non è solo un problema economico. L’imprenditore si è trovato solo. Una solitudine che sta portando alla chiusura o alla cessione di imprese, e che, in molti casi, è stato condivisa solo con i propri collaboratori.
Il sindacato, da parte sua, ha avuto atteggiamenti contrastanti. Sul piano pratico, laddove il sistema produttivo o di servizio ha continuato a lavorare è stato collaborativo, spesso fondamentale per risolvere i problemi quotidiani e le legittime preoccupazioni dei lavoratori o ha comunque evitato di mettersi di traverso nella gestione dell’emergenza. Sul piano strategico, più legato alla ripartenza e alla gestione delle conseguenze occupazionali, il sindacato ha preferito riprendere panni più “tradizionali” dando la netta impressione di voler capitalizzare nel breve il proprio ruolo e non di essere protagonista propositivo del rilancio economico e sociale del Paese.
Sembrerebbe più attratto dalla sponda offerta da una Politica fragile e litigiosa e alla conseguente gestione dall’alto delle ingenti risorse da impiegare e da finalizzare che a impegnarsi a costruire un nuovo patto sociale con il mondo delle imprese.
I tavoli aperti sui rinnovi dei contratti nazionali, al contrario, per la loro durata e per i loro possibili contenuti si potrebbero prestare benissimo per contribuire ad affrontare in modo innovativo la fase attuale all’interno di una strategia confederale condivisa.
Sul versante industriale il “patto di fabbrica” è lo strumento di riferimento. Ovviamente andrebbero definiti meglio contenuti e contropartite vere perché il Paese che esce dal lockdown è profondamente diverso da quello che vi è entrato nel quale quella strategia è stata proposta. Per gli altri comparti, soprattutto quelli che stanno pagando un prezzo altissimo o quelli che saranno travolti da pesanti riorganizzazioni una visione d’insieme comune è altrettanto importante.
I contratti nazionali così come sono arrivati ad oggi da epoche geologiche precedenti rischiano altrimenti di essere condannati all’obsolescenza per la loro evidente distanza dalla realtà. Andrebbero riscritti e cambiati in profondità mantenendone ovviamente il carattere di tutela generale e collettiva dei lavoratori, di individuazione dei minimi salariali della categoria a cui si riferiscono e di strumenti di gestione del welfare di loro derivazione.
Tutto il resto ha però senso riscriverlo solo se comincia a cambiare veramente il rapporto tra le parti. Se non si crea un clima di fiducia reciproca, alle imprese, non conviene affatto cambiarli. Conviene continuare a lasciarne esaurire il ruolo nel tempo e a renderne obsoleti i contenuti. Chi può o ne ha la possibilità potrà costruirne altri in azienda. Chi non può o non vuole se ne atterrà controvoglia o inseguirà i cosiddetti contratti pirata che in alcuni casi sono proposti da sindacati che vantano, a torto o a ragione, una loro rappresentatività. O, se PMI attenderà il salario minimo.
Purtroppo, come sostiene Ernesto Dalli Della Loggia “..in una società civile come quella italiana, vivacissima e piena di energia a livello molecolare, ma a livello generale incapace di aggregarsi per forza propria intorno a indirizzi di vasta portata, priva di una vera tradizione di movimenti collettivi dal basso — (l’inerzia) ha un effetto sostanzialmente paralizzante. Non a caso da anni il Paese è fermo.”
Ma quale altra occasione si presenterà per cambiare sul serio se non quella che abbiamo di fronte? I passati rinnovi sono lì a dimostrare che il sindacato non ha la più forza di imporre i contenuti come fossimo negli anni 70 del secolo scorso. Può convincere, condividere, scambiare, scommettere, subire ma non può imporre nulla. Ma questo non è sempre un vantaggio per le imprese. Il cambiamento necessario e il contesto esterno non si affrontano da soli. Il “totalismo” aziendale non è sufficiente quando si fa parte di filiere complesse o si affrontano sfide straordinarie come sistema Paese.
È vero, le associazioni sindacali e di impresa devono cambiare, ritrovare una loro ragion d’essere, rimettere al centro ciò che conta veramente e non la loro sopravvivenza e quindi il loro semplice destino organizzativo. Ma questa ricerca di senso ha bisogno di strategie comuni, di convergenze sul “fare” e non di contrapposizioni inconcludenti.
Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici è un banco di prova importante. Una piattaforma sindacale, che lo si voglia ammettere o meno, obsoleta perché nata prima del lockdown deve ricomporsi ad un tavolo negoziale dove Federmeccanica, che pure ha le sue responsabilità, l’ha respinta come irricevibile. La stessa mobilitazione che ne è scaturita fa ripensare a tempi passati così come l’incedere dell’autunno che mediaticamente richiama a stagioni sociali che furono. Probabilmente tutto questo era inevitabile.
Quello che credo sfugga è il contesto nel quale questa vicenda si cala. Cercare di rinnovare comunque i contratti in fretta e senza inserirli in questo contesto e senza condividerne i percorsi di uscita è, a mio parere, un errore le cui conseguenze, se non ben comprese, sono destinate a durare nel tempo.