Mentre a Susegana le parti sociali costruiscono in silenzio il lavoro che verrà (http://bit.ly/2LSjgPx) come ci racconta Dario Di Vico sul corriere, la politica sembra scegliere come terreno di scontro proprio il lavoro che c’è, oggi. O che manca. E le organizzazioni di rappresentanza, anziché reagire unitariamente all’invasione di campo, sembrano abbozzare.
Innanzitutto la querelle sul salario minimo. Le proteste sono di circostanza. Confcommercio è partita in ritardo attestandosi su di una protesta generica mentre Confindustria sembra rassegnata a guardare dentro la proposta dei 5s. I sindacati confederali preferiscono girare alla larga. È una situazione kafkiana. Tutti sembrano essere contrari a parole ma nessuno fa un vero passo in avanti deciso per dare senso e gambe alla protesta.
C’è la solita attesa che la proposta di una parte del Governo venga annacquata e resa compatibile con il modello attuale dall’altra componente dello stesso Governo.
Il responsabile del MISE e il Presidente dell’INPS presentano una proposta estemporanea sulla previdenza complementare che, sulla carta, porterebbe alla crisi della previdenza contrattuale. Nessuno reagisce. Viene ritenuta poco più di una boutade destinata a finire presto nel dimenticatoio.
Nello scontro sulle autonomie ricompare il tema delle gabbie salariali al sud. Pochi sembrano comprendere la pericolosa posta in gioco tra chi vede nello Stato la soluzione economica ai problemi del lavoro (nazionalizzazioni, RDC, quota 100, secondo pilastro pensionistico, ecc.) ma anche politica (salario minimo, gabbie salariali, ecc.) e chi, al contrario, comprende che il futuro del lavoro si costruisce concentrando le risorse necessarie sulla scuola e sulla formazione continua, sulle politiche attive, rilanciando l’alternanza, incentivando il welfare aziendale e contrattuale, decentrando la contrattazione per favorire gli accordi di produttività e spingendo sul modello contrattuali collaborativi.
La prima strada bloccherebbe, di fatto, la necessaria innovazione che attende la prossima stagione dei contratti. La renderebbe inevitabilmente ancillare. Ne aprirebbe una crisi irreversibile. E contemporaneamente asciugherebbe, e di molto, l’acqua dove nuota la rappresentanza stessa.
Che ci provi un Governo che è alla continua ricerca di modelli sociali che disintermediano la rappresentanza è comprensibile. Che non faccia riflettere la rappresentanza stessa sulla china pericolosa di questi interventi, per il momento solo annunciati, lo trovo compatibile con lo stato di confusione strategica che alberga nel campo dei corpi intermedi.
Tutti sembrano parlare d’altro in attesa di accadimenti sul piano politico che non sono assolutamente prevedibili ma forse nemmeno auspicabili. Per questo l’esperimento sociale e organizzativo in corso a Susegana rappresenta un grande valore.
L’impresa 4.0 non è solo materia di convegni più o meno utili. Passa attraverso un progetto condiviso da una grande multinazionale, dal sindacato dei metalmeccanici e dagli stessi lavoratori. Parte da un’idea di evoluzione dei modelli di consumo che porta inevitabilmente con sé una serie di conseguenze per l’impresa produttrice, i suoi partner a monte e a valle, i suoi collaboratori vecchi e nuovi, i modelli di selezione, retention e sviluppo professionale dei giovani che entrano in azienda.
Mette, questo sì, in crisi i modelli contrattuali novecenteschi, gli inquadramenti e le vecchie declaratorie, la necessità di progettare nuove forme di welfare più attrattive e di ripensare al work life balance in termini di orari ma anche di superamento dei tradizionali luoghi di lavoro. Ma tutto questo ha senso se il modello di relazioni industriali punta deciso sulla collaborazione.
L’impresa 4.0 in tutti i settori ha bisogno di partecipazione, consenso e ingaggio vero. Di un’impresa e di lavoratori adulti che si riconoscono e si rispettano. Susegana ci dice che la partita è tutta da giocare. A cominciare dalla prossima contrattazione nazionale.
In campo ci sono due modelli per il lavoro che verrà. Quello gestito più o meno direttamente da uno Stato che amministra sudditi che non vogliono o non possono emanciparsi e quindi scelgono un modello assistenziale, calato dall’alto, disintermediato e governato dalle maggioranze politiche che si avvicendano. Oppure un modello che punta deciso al coinvolgimento, a partire dal luogo di lavoro, che condivide responsabilità e obiettivi, che riscrive le regole del gioco, che trova, nella filiera, le mediazioni e gli equilibri necessari e che intorno costruisce un welfare è un sistema formativo che non lascia la persona sola alle prime difficoltà.
Se però la rappresentanza tace e osserva dalla finestra gli accadimenti temo che il primo modello, che porta inevitabilmente con sé una cultura autoritaria del lavoro, calata dall’altro, centrata esclusivamente sui costi e sui numeri, farà strada anche in parte della rappresentanza datoriale. Il cosiddetto “lavoro povero” oggi identificato non sempre a ragione con il mondo dei servizi può essere preso a modello ovunque.
Se nella filiera prevale la legge del più forte, l’ultimo anello della catena, non può aspettarsi nulla di positivo. È la logica, come dimostra Susegana. che deve cambiare. Altrimenti il destino è segnato.