Il terziario di mercato italiano e l’innovazione richiesta alla sua rappresentanza

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Per cercare di capire meglio uno dei problemi principali della difficile affermazione/evoluzione del terziario di mercato nel nostro Paese può essere utile la metafora del bruco e della farfalla. La crisalide per trasformarsi in farfalla deve compiere, essa stessa, uno sforzo enorme. Ma è solo quello sforzo che permetterà alle sue ali di rafforzarsi consentendole così di completare il proprio ciclo vitale naturale.

Nel terziario di mercato questo processo naturale evolutivo non c’è ancora stato.  O meglio c’è stato solo in alcuni sotto settori.

Sul resto non si è mosso nulla di significativo perché rallentato nella crescita dalla presenza di una rappresentanza tradizionale modellata,  su quella parte della propria base, culturalmente più conservatrice e meno portata alla sfida dell’innovazione.

E così, come nel caso della crisalide, si è continuato ad intestardirsi nel ritenere sufficiente il mantenimento della titolarità del contratto nazionale per rappresentare le esigenze complessive del terziario in forza di una presunta  proprietà transitiva.

Questo ha spinto ad una crescita spesso contraddittoria  nella quale le fondamenta  sono state edificate su un modello di lavoro povero, mutuato in parte dal commercio tradizionale e dai servizi a basso valore aggiunto non sempre funzionale lasciando contemporaneamente  in ombra  la necessità  di una rappresentanza moderna, in grado di mettere il comparto  in relazione con l’intero sistema produttivo e istituzionale integrandone competenze e proposte.

È la differenza giustamente sottolineata da Dario di Vico tra una lobby tradizionale di vecchio conio e un “provider di soluzioni valide per l’intero sistema”. Non dando modo alla crisalide di misurarsi con la resistenza della sua prigione le si è impedito  di costruirsi quella forza necessaria a librarsi in volo. E così, interpretando l’intero terziario italiano di mercato semplicemente come ancillare al commercio tradizionale lo si è allevato, blandito e costretto, fino ad ora, in una logica totalmente difensiva senza consentirne la naturale evoluzione nelle filiere e nel sistema complessivamente inteso. E non bastano i convegni o gli uffici studi quando lo sforzo di rappresentare questo mondo è assolutamente insufficiente.

Confcommercio, da questo punto di vista, è un interessante caso di studio. Si è passati dallo scontro interno, tra innovatori e conservatori, ad esempio, sulla necessità o meno di andare oltre il vecchio brand  (da Confcommercio a Imprese per l’Italia) ritornando sempre al punto di partenza. Si è dato un peso esagerato ad alcune strutture territoriali rispetto alle federazioni che così soffrono una forte concorrenza. Si è continuato a concepire un contratto nazionale tradizionale modellandolo sulle esigenze del commercio e quindi di un’idea di lavoro povero non riuscendo a capire le specificità presenti nel terziario di mercato e i cambiamenti in atto.

La stessa restaurazione in corso ha fondamentalmente due scopi precisi. Una evidentemente di mantenimento del potere così come si è costruito negli anni intorno al suo Presidente  ma un’altra dettata dalla paura di non riuscire, con questo gruppo dirigente, ad andare oltre la logica della vecchia lobby tradizionale perché fuori dalla portata culturale e organizzativa della Confederazione. Per visione,  consunzione del leader, qualità degli uomini di vertice e incapacità di rimettersi in discussione.

Confcommercio in questi decenni ha costruito, senza una vera e propria strategia, una sorta di “arca di Noè”  nella quale ha fatto salire tutti quanti fossero in cerca di un rifugio e condizioni contrattuali più convenienti che altrove evitando però di proporre contemporaneamente un luogo stimolante, innovativo  e favorevole alla crescita dei  sotto comparti del terziario.

Quindi può starci Amazon e i suoi peggiori nemici, la piccola e la grande distribuzione, gli albergatori e i loro avversari, gli agenti di commercio e la loro controparte contrattuale e via dicendo. Con un limite preciso. Sul piano della rappresentanza nessuno conta nulla in Confcommercio salvo la burocrazia che governa il contenitore. Che è conservatrice per vocazione.  

Ed è bastato rendere la Confederazione   non scalabile, come con l’approvazione dell’ultimo statuto per impedirne, di fatto, la naturale evoluzione. C’è chi ci ha provato a mettersi di traverso ma è stato messo rapidamente alla porta. Troppi interessi in gioco. Ma il tema della qualità e dell’innovazione della rappresentanza in rapporto all’evoluzione dell’intero comparto e alla caduta dei confini rigidi tra settori ritorna prepotentemente in primo piano. È inevitabile.

Quindi il terziario di mercato si trova  di nuovo davanti  ad un bivio. Proseguire nella sua crescita  puntando sui bassi costi all’ombra di un modello tradizionale costruito intorno al contratto nazionale del commercio che comunque lo protegge accettando un brand onnicomprensivo in grado di gestire un’attività di lobby trasversale oppure prendere coscienza del proprio ruolo e provare a muoversi con le proprie gambe, puntando su federazioni forti, trasversali e rappresentative, sviluppando nuove alleanze nelle filiere  e convergenze con chi punta alla crescita e allo sviluppo del Paese.

Sul piano della rappresentanza,  vincerà chi saprà accompagnare le imprese del terziario in questi passaggi. Non certo chi cercherà di rallentarne l’evoluzione e il ruolo di traino  delle rispettive federazioni perpetuando un modello ormai evidentemente bolso.

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