Se non ricordo male l’ultima associazione datoriale che confluì nel contratto nazionale unificato del comparto alimentare fu quella dei mugnai e pastai. Ventitré contratti, nei primi anni ‘80, diventarono quello che fino ad oggi è stato uno dei più importanti e innovativi contratti nazionali del comparto industriale.
Insieme al contratto dei chimici ha sempre colto, anticipandoli, i cambiamenti culturali e organizzativi di settori strategici per la nostra economia. I cosiddetti “falchi e colombe” presenti nelle associazioni di categoria di Confindustria trovarono allora una ragione di unità che ha retto per quarant’anni. L’accelerazione di questi giorni di una parte delle imprese di Federalimentare per chiudere il contratto nazionale con una proposta fatta al sindacato di categoria riporta in primo piano esigenze diverse che attraversano le imprese del settore e che minano alla base le ragioni stesse dell’esistenza di un contratto nazionale.
Era già successo con la rottura tra Federdistribuzione e Confcommercio e tra Federalberghi e FIPE. Senza parlare della proliferazione dei contratti pirata vero sintomo di un declino qualitativo del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione nel nostro Paese.
Poche aziende, spesso le più grandi e strutturate scommettono sull’interlocutore sindacale come partner nei processi di cambiamento e innovazione mentre la stragrande maggioranza preferisce tenerlo alla larga. La stessa fase 2 del Covid-19 sembra caricarsi di una profonda diffidenza reciproca.
Alcune esigenze oggettive determinate dall’emergenza (lavoro a distanza, sicurezza dei lavoratori, modelli organizzativi e sistema degli orari) vengono agitati in modo improprio da una parte del sindacato e alimentati da una parte della politica inducendo le imprese a chiudersi al confronto o a darne per scontato la sua inutilità in un momento dove sarebbe necessario al contrario alzare lo sguardo, individuare le priorità che attengono alla ripresa del lavoro, concentrarsi sulle inevitabili conseguenze occupazionali e predisporsi a gestirle con uno sforzo comune.
Una delle conseguenze del Covid-19 sarà una accelerazione del confronto sul destino dei contratti nazionali. Sul fronte sindacale si rivendica l’assenza dei rinnovi per dieci milioni di lavoratori mentre sul fronte datoriale, Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, ne segnala l’obsolescenza puntando decisamente verso una riorganizzazione del modello che privilegia la contrattazione decentrata. La stessa riconferma di Maurizio Stirpe ideatore del “patto della fabbrica” come responsabile dell’area del lavoro e delle relazioni industriali della Confederazione ne indica una probabile direzione di marcia.
il Governo, agli Stati Generali, ripropone l’intenzione di andare verso il salario minimo che inevitabilmente minerebbe le fondamenta della contrattazione nazionale in un Paese dove la presenza delle piccole e delle micro imprese è determinante.
Già nel dibattito che aveva accompagnato gli ultimi rinnovi dei contratti del comparto industriale si era manifestata una dialettica interessante tra una visione delle singole categorie che puntavano ad un rinnovamento dei contenuti pur in un disegno di continuità degli strumenti e una visione più di lungo periodo che puntava ad un ridisegno complessivo dei modelli contrattuali.
L’ultimo rinnovo dei contratti nazionali di comparto ha messo la sordina al confronto. La gestione dei contenuti ha però evidenziato un limite evidente. Le imprese soprattutto quelle piccole e medie sono restie ad adottare un modello decentrato che hanno abbandonato nel corso degli anni. Ne percepiscono più i rischi che le opportunità e quindi i rinnovi pur con qualche eccezione (vedi quello dei metalmeccanici) hanno percorso strade tradizionali e più scontate.
Nello stesso sindacato confederale il dibattito è aperto da tempo. Seppure sotto traccia. Al di là delle liturgie consolidate e quindi difficili da rimettere in discussione due ostacoli appaiono allo stato di difficile soluzione. Innanzitutto la funzione di copertura salariale esercitata dai CCNL per i lavoratori di molti comparti alcuni dei quali non rappresentati da Confindustria e, in secondo luogo, la esigibilità o meno di un nuovo modello decentrato. Queste reciproche quanto legittime diffidenze bloccano ogni tentativo di rinnovamento possibile.
Quindi si è giunti ad un paradosso. Tutti constatano i limiti intrinsechi dello strumento ma, alla fine, convergono inevitabilmente sulla sua conferma limitandosi ad una modesta manutenzione che ne conferma però i limiti stessi.
Eppure una sua evoluzione sarebbe auspicabile e possibile. E può essere fatto solo a livello confederale. Innanzitutto le materie. Diritti, doveri, welfare (sanità e previdenza complementare) e minimi salariali (penso al livello economico della CIG) dovrebbero essere frutto di una contrattazione uguale per tutti. In questo modo tutti i comparti verrebbero coperti con strumenti omogenei e universali.
Personalmente sostituirei anche l’inquadramento professionale con semplici range economici legati ad una scala parametrale da gestire e “vestire” a livello decentrato e legati all’effettiva professionalità espressa. Crescita o decrescita professionale (superando i limiti oggi imposti dal codice civile) sarebbero così molto più trasparenti. E poi in un mondo sempre più digital parlare di inquadramento statico e tradizionale è già di per sé un limite culturale.
Definita queste due parti (salario minimo nazionale e range del salario professionale) una parte economica può essere prevista per il contributo che ciascun lavoratore porta ai risultati aziendali. Ovviamente declinabili su obiettivi individuali o di gruppo, progetti, ecc. e quindi detassati.
La contrattazione decentrata con scadenza annuale affronterebbe tutte le problematiche relative alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. La formazione necessaria, i luoghi e i tempi di lavoro, l’andamento dell’impresa, i suoi problemi e le opportunità trasformando quel momento di confronto in un fattore di crescita complessiva e di coinvolgimento.
Resterebbero fuori le piccole realtà che potrebbero essere però coperte da una contrattazione territoriale o di settore specifica con indicatori differenziati. In sostanza andrebbe definito un quadro di riferimento che metta al centro l’impresa, la sua capacità di produrre ricchezza, la centralità delle risorse umane che vi operano e il loro contributo alla sua crescita.
La diffidenza che oggi è forte si recupera evitando approcci ideologici che mettono solo piombo alle ali in un momento estremamente delicato. A mio parere il sindacato dovrebbe evitare di inseguire le superficialità della politica sul tema condite da una pessima cultura anti impresa.
E le imprese dovrebbero scommettere ancora più decisamente sui propri collaboratori, sulle loro esigenze e sul loro potenziale propositivo. E anche su quella parte del sindacato che ne rappresenta le istanze più concrete.