Il turn over (elevato) in GDO come indice di insoddisfazione…

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Come giustamente ricorda Francesco Seghezzi: “In Italia c’è una crisi dell’offerta di lavoro, che peggiorerà nei prossimi anni a causa delle trasformazioni demografiche. Ma allo stesso tempo è il secondo paese in Europa per numero di persone che potrebbero lavorare e non lo fanno perché disoccupati o inattivi. In particolare abbiamo la quota più alta di inattivi che si dichiarano “disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente lavoro”. Una categoria particolare, che potrebbe sembrare paradossale, ma che dice molto del nostro mercato del lavoro, tra lavoro nero, frammentazione, scoraggiamento” .

Se poi passiamo dal mercato del lavoro alle aziende, c’è un indicatore che spiega, più di molti altri, il clima  ben al di là dei dei premi ufficiali che difficilmente scavano nelle viscere di un’impresa e delle indagini interne spesso costruite sui desideri dei top manager. È il turn over dei dipendenti. Lasciare un’azienda spesso è sintomo di una sconfitta reciproca. Per il collaboratore che cerca altrove ciò che non è riuscito a trovare dopo aver investito tempo e impegno ma anche per l’azienda perché perdere risorse umane  sulle quali si è investito, non solo i cosiddetti “talenti”, ha un costo enorme per le imprese. 

Trattenere e coinvolgere I propri collaboratori e i lavoratori in genere è quindi sempre più importante. Soprattutto in tempi di difficoltà nel reperimento di  risorse.  L’Italia, pur in cambiamento, è oggi il Paese in testa alla classifica per il tempo medio più lungo trascorso presso lo stesso datore di lavoro con 12,2 anni. Difficile però che questo dato si confermi con l’avvento delle  nuove generazioni. Seguono Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Regno Unito) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media del turn over cresce dall’8,2% del 2021 al 13,3% del 2022.  Colpisce il dato recente del 35% il turnover di Esselunga, ma riguarda soprattutto dipendenti giovani maschi con meno di 30 anni.

Poche insegne forniscono i dati. Nella distribuzione moderna italiana è sempre più difficile attrarre risorse per i modelli organizzativi proposti e l’impegno temporale richiesto. Si rischia che, i più giovani, considerino questo lavoro di passaggio  verso altre realtà. Un dato su cui riflettere. In Europa Tesco tre anni fa era vicino al 30% di turn over. Ora  è appena al di sotto della media del settore, intorno al 35%. Carrefour a livello mondo dichiara il 25%. Il tasso di turn over del lavoro a livello complessivo, in Germania, oscilla tra il 25 e il 30% Nel Gruppo Rewe dal 19 al 25% (2022). Mercadona in Spagna fa eccezione: si attesterebbe intorno al 2%. Un altro dato su cui riflettere.

Secondo McKinsey il mancato coinvolgimento dei collaboratori e il cosiddetto employee attrition (dimissioni volontarie alla ricerca di cambiamenti nella vita professionale) costano a una azienda del S&P 500 (le 500 quotate più grandi) una media di circa 220 milioni di dollari all’anno. Solo il turn over volontario dei dipendenti,  costa, al totale delle imprese  americane, circa un trilione di dollari (Retention Report 2024). Il turn over complessivo tra entrate e uscite, l’apprezzare o meno lo sviluppo  professionale proposto, il sentirsi ingaggiato e coinvolto  su valori e strategie aziendali la qualità della  comunicazione interna e quindi dell’ascolto, insieme alle corrette relazioni sindacali fanno parte dello “scambio” tra persone e organizzazione. E questo per le generazioni più giovani è fondamentale.

Il turn over è quindi uno degli indicatori utili da monitorare con grande attenzione. Soprattutto in tempi di difficoltà a reperire risorse positive e trattenere i cosiddetti talenti. Ottimo quindi il lavoro con le scuole,  i Career Day, i progetti di apprendistato, i tutor aziendali,  i momenti di ascolto e di coinvolgimento. Sul tema, sempre negli USA,  Walmart e Amazon, per citare i due estremi, hanno scelto negli anni approcci completamente diversi. Walmart, il più grande datore di lavoro del settore privato negli Stati Uniti, nota per pagare salari molto bassi, ha sempre affrontato un tasso di turnover dei dipendenti con punte, nel passato, addirittura del 70% all’anno. Oggi è intorno al 45%. Per cercare di arginare le uscite, in alcune realtà più periferiche  sta cercando di    rendere il processo di dimissioni volontarie meno automatico.

Il “Programma No Quit” spinge i dipendenti ad incontrare le direzioni di sito  prima di dimettersi attraverso una exit interview strutturata  che permetta di raccogliere informazioni sui motivi che hanno portato la persona a voler lasciare la società puntando, se possibile, a farle cambiare idea. Amazon fino alla pandemia aveva fatto l’esatto contrario con il programma “Pay to  quit” sospeso da oltre un anno. Inizialmente ispirata da un programma simile di Zappos, Amazon aveva  adattato il programma “Pay to Quit” all’interno dei suoi centri di distribuzione, offrendo ai dipendenti un incentivo economico per lasciare l’azienda se non si sentissero convinti fino in fondo di restare. È un  approccio non convenzionale alla fidelizzazione dei dipendenti e allo sviluppo della carriera.

Al centro di questa filosofia c’era la convinzione che dare ai collaboratori  gli strumenti per perseguire le proprie aspirazioni di carriera, anche al di fuori dell’azienda, fosse reciprocamente vantaggioso sia per i collaboratori che per la società. Il programma ‘Pay to Quit’ è stata un’iniziativa innovativa progettata per incoraggiare i dipendenti di Amazon a riflettere sui propri obiettivi di carriera, garantendo al contempo che l’azienda mantenesse solo collaboratori ingaggiati ed entusiasti. Oltre al programma “Pay to Quit”, l’azienda di Jeff Bezos aveva introdotto l’iniziativa “Career Choice”. Prepagando il 95% delle tasse universitarie per corsi in settori ad alta richiesta, Amazon ha dato ai suoi dipendenti la possibilità di proseguire la propria formazione in settori quali infermieristica o meccanica aeronautica, ecc. indipendentemente dalla loro pertinenza con l’azienda di Seattle.

L’intenzione era quella di promuovere la scelta e facilitare la crescita personale, riconoscendo che, per alcuni, Amazon avrebbe potuto fungere da trampolino di lancio verso percorsi di carriera diversi. Così come l’adozione dello smart working. La pandemia, la difficoltà a reperire risorse e il ritorno ad una nuova normalità hanno provocato l’interruzione di questi progetti. Il richiamo in azienda per cinque giorni a settimana dal gennaio del 2025 è un segnale del cambio di strategia.

La fidelizzazione per le imprese diventa una vera sfida. E coinvolge tutti. Non solo i clienti. 

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *