Un dibattito come sempre molto interessante quello proposto da Dario Di Vico nel percorso sull’identità del lavoro. L’ultimo, in modo particolare, con relatori di prim’ordine come Tiziano Treu, Andrea Malacrida e Vincenzo Colla sul lavoro cosiddetto povero, senza valore il suo inevitabile collegamento con la povertà, individuale e familiare, la difficoltà ad uscire da quello stato, le proposte di difficile attuazione sia in Italia che in Europa.
La stessa espansione dei lavori di consegna, delle piattaforme logistiche, del lavoro di cura e delle cooperative spurie ne disegnano nuovi confini. Qualche milione di persone coinvolte. La discussione si è inevitabilmente incentrata su come intervenire questa situazione.
E, soprattutto, se quello stato può e deve essere considerato transitorio o definisce un ghetto sociale dal quale è praticamente impossibile uscire. Dario Di Vico ha provato a proporre alla discussione l’allargamento della riflessione ad altri settori, soprattutto dei servizi. Questo perché il lavoro povero, il suo confine con il lavoro nero, la sua possibile espansione sono visti come un rischio evidente per la stessa tenuta del tessuto sociale.
C’è però un aspetto che rischia di restare in ombra in queste discussioni. Ed è il valore sociale del lavoro senza valore.
Certo ci sono i giovani che lo accettano sperando di lasciarlo al più presto e c’è, ad esempio, il part time involontario che lo rinchiude in una camicia di forza. Per noi che siamo cresciuti nel 900 con lo statuto dei lavoratori e con il codice civile il lavoro è sempre stato sinonimo di possibilità crescita, di identità, di autonomia e di realizzazione personale.
Ma è ancora possibile in questi termini? E, soprattutto, lo è ancora per tutti? Da un lato c’è l’ascensore sociale bloccato, la spinta all’emigrazione, il mismach di competenze ma dall’altro c’è una divaricazione sempre più netta tra i lavori che potenzialmente consentono ancora crescita e affermazione sociale e quelli sui quali molte imprese schiacciate dalla concorrenza e forse senza prospettive future hanno scaricato una parte del rischio sia in termini di quantità di retribuzione che di assenza tutele.
Per i primi la formazione e i percorsi di crescita professionale si confermano come fondamentali. Per i secondi, purtroppo, non è così. E questi lavori, crescono soprattutto in questa fase di transizione economica e sociale.
Coinvolgono individui a bassa scolarizzazione o con problematiche sociali e di integrazione. Persone che vorrebbero rientrare nel mercato del lavoro avanti con l’età o espulse nelle ristrutturazioni. Invalidi e soggetti con problematiche serie di salute, donne che cercano lavoro dopo essersi dedicati alla crescita dei figli. Per loro è difficile se non impossibile riprendere percorsi virtuosi.
Un’area vasta, destinata a crescere che non intercetta necessariamente il reddito di cittadinanza perché in passato è riuscita magari a costruirsi qualcosa e che ha bisogno di lavorare per vivere, qui e ora. Sono centinaia di migliaia di persone che lavorano in nero, che portano a mano i loro CV illeggibili scritti su pezzi di carta impresentabili e li lasciano ai banconi dei supermercati, che accettano ogni tipo di lavoro pur di guadagnare e che vivono sul confine di ciò che è lecito e ciò che non lo è.
Basterebbe fare in giro nelle cooperative della logistica (altro che Amazon che rispetta i contratti!), nei bar, nella ristorazione, nelle imprese di pulizia, nelle piccole officine, nei supermercati h24 soprattutto di notte, nei lavori di cura, ecc. Per tutte queste persone anche il lavoro senza valore rappresenta un valore importante.
Molti di questi lavori verranno sostituti dalle tecnologie dedicate, altri resi inutili. Altri, forse, avranno bisogno di specializzarsi come il caso del lavoro di cura. Ma queste persone, quelle di oggi, in carne e ossa con i loro problemi, resteranno.
Ed è difficile fingere di non vederle.