Difficile stabilirne il momento esatto o di chi furono le responsabilità della separazione. Ma la separazione ci fu in tutte le organizzazioni di rappresentanza.
Forse fu più evidente nei sindacati perché seguì la fine del percorso unitario e l’affermarsi delle rispettive derive identitarie. Fu meno evidente nelle organizzazioni datoriali. Ma avvenne anche lì.
Intellettuali e forze sociali si lasciarono così, ad un certo punto, senza rancore. Ha ragione Dario di Vico ( http://bit.ly/2GeCqh4 ) a ricordarci che quella separazione è costata cara. Sia alle organizzazioni di rappresentanza che agli intellettuali. Ma, di fatto, anche al Paese.
È venuta a mancare quella capacità di mettere a fattor comune le grandi speranze di cambiamento, la qualità progettuale delle proposte che via via si appalesavano e la concretezza della fatica dell’agire quotidiano.
Diventate più “povere” sul piano culturale e progettuale, a tutte le organizzazioni sociali non è rimasto altro che rinchiudersi nei propri riti e nelle proprie liturgie perdendo quella sana sensibilità e disponibilità di continuare a riconoscersi l’un l’altro come parti fondamentali della crescita economica, sociale e culturale dell’intera comunità nazionale.
È vero, sindacati dei lavoratori e rappresentanza delle imprese hanno poi sottoscritto importanti accordi dagli anni 90 in poi. Accordi che hanno contribuito a salvare il Paese dal disastro e che hanno consentito di gestire i contraccolpi sociali delle crisi economiche e della trasformazione industriale.
Quindi un ruolo essenziale di governo di quei fenomeni che via via impattavano sulla vita quotidiana di milioni di persone e decine di migliaia di imprese. Ma tutto questo è avvenuto all’interno di un profondo cambiamento anche antropologico della nostra società che non ha loro assegnato più ruoli da protagonista. La concertazione e la sua fine ingloriosa ne hanno rappresentato l’alfa e l’omega inevitabili.
Essere sindacato (per i lavoratori e per le imprese) ha rappresentato sempre meno un valore aggiunto, un desiderio di condivisione e di appartenenza orgogliosa per milioni di persone proprio perché l’istituzionalizzazione delle rispettive organizzazioni le ha consegnate al presente e alle sue inevitabili mediazioni con una politica anch’essa sempre più in difficoltà e quindi alla ricerca di nuovi spazi da coprire. Un modello con una prevalenza di servizi importanti, utili, a volte indispensabili per districarsi nella complessità di leggi e norme. Ma sempre più imitabili dal mercato.
Con strutture e uomini scelti per difendere sempre più il proprio recinto organizzativo sempre meno aperti a convergenze e a mettersi in discussione. Quindi quel modello aperto, disponibile al confronto, sperimentale nelle idee e determinato nelle iniziative che ha accompagnato le organizzazioni di rappresentanza dagli anni 50 e fino agli anni 80 si è via via esaurito proprio perché si è trovato chiuso nelle generazioni che lo hanno sapientemente costruito.
Riprenderlo così com’era, oggi, forse servirebbe a poco. Però il problema c’è. La nostra società, le imprese che vi operano, i problemi legati alle migrazioni, all’integrazione e alle dinamiche competitive imposte dalla globalizzazioni necessitano sempre più di risposte plurali.
Avviare una riflessione vera su ciò che il 900 ci ha tramandato in termini di modelli e logiche organizzative, di confini nati quando scegliere dove stare e come difendere le proprie idee e i propri interessi era fondamentale e quindi occorreva presidiare con autorevolezza i meccanismi distributivi pubblici. Una riflessione su chi resta indietro nei territori, nel lavoro e nelle imprese.
Una riflessione plurale sulle priorità della nostra società proprio per evitarne la rottura di quei meccanismi sociali che ne hanno reso possibile la crescita sociale ed economica. E, infine, dentro le imprese, sempre più sottoposte ad una durissima competizione che le espone a imprevedibili rischi continui di sopravvivenza non ha senso continuare ad insistere su un antagonismo basato sulla rivendicazione di presunti interessi contrapposti in un contesto dove le imprese e il lavoro sono quotidianamente attaccati insieme. E dove, insieme, devono trovare nuove forme di collaborazione proprio per affrontare il futuro.
A Vicenza nel prossimo mese di maggio, nell’ambito del “Festival dei Territori industriali”, Federmeccanica propone una riflessione con il sindacato sulla via italiana alla partecipazione di impresa. È un segnale. Altri c’è ne saranno nei prossimi mesi. Speriamo sia una convinzione diffusa che sale dal basso.
È il momento nel quale lo sforzo di riflessione dovrebbe essere condiviso tra organizzazioni di rappresentanza con l’apporto di intellettuali disposti a lavorare in un nuovo percorso che parte dal sociale ma che guarda a ciò di cui la nostra comunità ha veramente bisogno.
I risultati elettorali ci hanno consegnato un Paese nel quale un progetto politico si è esaurito. E questo non riguarda solo i Partiti tradizionali messi in crisi proprio dalla sottovalutazione di ciò che era già avvenuto altrove nel mondo. Era un progetto dove il rapporto qualitativo e il linguaggio tra politica e corpi intermedi era ricco di significato.
Non so se serviranno nuovi attori o se i segnali che il futuro è ormai alle porte troverà orecchie attente e determinazione da parte di chi oggi vive con passione, impegno e spirito di servizio il mondo della rappresentanza sociale ed economica. Personalmente me lo auguro.