I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.
Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.
Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.
A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.
Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.
Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.
Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.
Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.
Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.
Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.
I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.
Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.
Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.
Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.
Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.
L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.
Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.