La coda del cane..

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Quando mi trovo incastrato in discussioni su come chiamare una nuova situazione, un nuovo concetto, un’attività mai fatta prima ricordo sempre quel vecchio proverbio che dice: ” puoi anche decidere di chiamare zampa la coda del cane ma comunque non puoi sostenere che il cane ha cinque zampe. In tema di nuovi lavori siamo un po’ qui.

Da una parte chi pensa che sia assolutamente necessario lasciar crescere un fenomeno indotto dalla tecnologia e dalla globalizzazione non preoccupandosi più di tanto di trovargli un nome appropriato e una classificazione conseguente.

Dall’altro chi si preoccupa di dover inserire immediatamente l’anomalia in una casella tradizionale o crearla ad hoc. Al netto della tecnologia, quindi già da molto tempo, i sistemi retributivi, di inquadramento contrattuale e di classificazione sono utilizzati dalle imprese esclusivamente per evitare contenziosi.

Le quattro definizioni del codice civile, pur essendo indispensabili ai fini giuslavoristici fanno sorridere nella vita reale delle organizzazioni. Come nel film “Quo Vado” era il posto fisso a identificare una categoria di lavoratori, in azienda, se si volesse fare altrettanta ironia, si utilizzerebbero termini come Dirigente, Quadro, impiegato e operaio.

Oppure le declaratorie contrattuali. Tutti questi termini nascono e muoiono nella lettera di assunzione che definisce i confini del rapporto di lavoro ai fini giuslavoristici. Poi c’è la vita vera.

Questa spaccatura netta tra definizione giuridica e contrattuale e realtà è stata importata dalla cultura delle multinazionali e si è imposta già a partire dagli anni 90. Non ha però influenzato il pubblico impiego né parte del lavoro autonomo tradizionale né quello che resta del fordismo ormai al tramonto.

In alcuni contratti si è tentato in qualche modo di rincorrere il problema ma i buoi erano ormai già usciti dalla stalla. I sistemi retributivi, premiali, di valutazione, la denominazione delle posizioni di lavoro e i conseguenti livelli di inquadramento, pur facendo riferimento ai contratti nazionali per i motivi di cui sopra, vivono ormai di luce propria e sono gestiti direttamente dall’impresa.

E quello che sta avvenendo all’interno delle aziende avviene anche nel lavoro autonomo, ordinistico e non ordinistico, stravolgendo contenuti, confini, compensi e opportunità. In questo contesto nascono nuovi mestieri o spunta periodicamente l’idea di rinominarli.

Così i fattorini o pony express diventano bikers, vendere le enciclopedie la domenica o distribuire i volantini dei supermercati, gig economy, affittare la propria stanza ad uno studente o a un turista, sharing economy.

Tutte cose che in misura modesta si sono sempre fatte. La nostra vecchia arte di arrangiarsi, rivisitata nella silicon valley, si è trasformata in jugaad innovation e viene insegnata da guru che riempiono aule di manager alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Solo che dietro a tutto questo non c’è la signora Maria di turno o il cassaintegrato che, in nero, arrotonda il suo magro reddito ma multinazionali in grado di influenzare il dibattito internazionale sul fisco, sul lavoro e sulla tecnologia.

E quindi, certi temi, vengono affrontati con cautela o con subordinazione. Sul fisco non si parla di grandi evasori che sfruttano le falle dei sistemi nazionali così come sul lavoro o sulle attività economiche non si parla di regole che devono valorizzare la sharing economy senza farla scadere in shadow economy sulla quale peraltro vantiamo, credo, il primato mondiale.

Mi ricordo quando sul finire del secolo scorso in alcuni supermercati della Coop comparvero pensionati di quell’azienda intenti a riempire sacchetti, alle casse, per sveltire il servizio ai clienti. Operazione meritoria. Purtroppo interdetta alle aziende concorrenti subito bersagliate dagli ispettori del lavoro. Quindi stesso mercato, stesse regole.

Che dire? È chiaro che non ha alcun senso attendere l’esito delle cause in Inghilterra su Uber o le decisioni della città di New York. Forse avrebbe più senso affrontare il tema senza farsi prendere la mano dalle mode o dalla paura del giudizio interessato di molti.

È un po’, mi si passi il paragone forzato, come la questione dell’olio di palma. Le imprese, o almeno una buona parte di esse, ha aderito ad un onda cercando di sfruttarla dal punto di vista del marketing fino a quando un’azienda importante che ritiene fondamentale l’uso  di quel prodotto non ha detto basta trasformando uno tsunami in una tempesta dentro un bicchiere d’acqua.

Qui siamo. Da un lato c’è il lavoro che cambia in una fase comunque di transizione epocale. Nei prossimi anni dovremo far coesistere modelli, culture, regole che comprendono sia il vecchio che il nuovo. È il destino delle nostre generazioni.

Noi siamo chiamati a fare quello che abbiamo sempre fatto in modo nuovo. Chi verrà dopo di noi, al contrario, dovrà fare cose nuove in modo nuovo. A noi spetta il compito di renderlo possibile senza lasciare scoperto nessuno. E soprattutto senza prendere in giro nessuno.

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