In molti comparti del settore privato lo sciopero non è più uno strumento in grado di modificare, di per sé, una forte contrapposizione presente in un negoziato. Nel terziario di mercato, ancora di più. Negarlo non serve. Come non serve, da parte datoriale, trasformare un dato numerico relativo alle partecipazioni, spesso irrilevante sul complesso degli addetti, come prova della scarsa adesione dei lavoratori alle tesi sindacali. Non è così. Siamo nel 2016. Il mondo del lavoro ha subito profondi cambiamenti. Così come le aspettative e le priorità delle persone. La crisi poi ha fatto il resto. Sul piano qualitativo un rinnovo di contratto nazionale non mobilita né coinvolge più emotivamente come in passato mentre sul piano quantitativo occorre tenere conto che l’inflazione è quasi a zero e la relazione tra speranze individuali, e ciò che si prospetta in un rinnovo, è spesso difficile da trovare. Il risultato economico, in genere, è scarso o insufficiente per le aspettative del singolo lavoratore (ad esempio nella GDO parliamo di 85 euro lorde scaglionate in tre anni), le modifiche normative non sono quasi mai particolarmente innovative per il singolo e, infine, il tempo che intercorre tra le assemblee di ratifica delle richieste sindacali e la conclusione dei negoziati è ormai infinito. Tutto questo però non significa che i lavoratori non ne auspichino il rinnovo o condividano la rigidità della rappresentanza delle imprese. C’è una aspettativa e c’è un’attesa. Per le singole aziende, al contrario, il costo di un contratto nazionale non è affatto insignificante. Soprattutto oggi che rappresenta, di fatto, l’unica pesante erogazione collettiva che incide in una fase di crisi dei consumi. Si somma ad un costo del lavoro già pesante, provoca un incremento dei costi non trasferibile sui prezzi, coinvolge tutti i collaboratori indipendentemente dal contributo individuale, e non fa differenza tra aziende in diverso stato di salute o che hanno già un costo aggiuntivo legato alla contrattazione aziendale. Quindi, se i rapporti di forza lo consentono, i contratti nazionali non si firmano più. E questo non riguarda solo la GDO. I comunicati che seguono le giornate di agitazione sono oggettivamente banali. Insieme ad una conta ragionieristica sui presunti partecipanti manifestano una apparente disponibilità finalizzata a non mettersi contro i livelli istituzionali, i media o l’insieme dei consumatori. O se, di parte sindacale, assumono inutili toni trionfalistici che non spostano minimamente i rapporti di forza né le intenzioni della controparte. Occorre prendere atto che non sono più gli scioperi a consentire oggi di firmare un contratto nazionale così come non può essere l’assenza degli stessi a impedirne la chiusura. Non sarebbe corretto. Proprio per questo la scelta di Confcommercio e dei sindacati del terziario, ormai più di un anno fa, è stata quella di individuare un bilanciamento che consentisse di erogare un beneficio economico (pur sofferto) in cambio però di una maggiore flessibilità organizzativa. Questa è la strada. Non credo sia una buona strategia andare avanti senza individuare soluzioni accettabili ad entrambe le parti. Non è più rinviabile un impegno a ricercare, insieme, nuovi percorsi che consentano di affrontare, senza conflitti inutili, queste situazioni. Noi non siamo la Francia. C’è un tessuto sociale che regge fatto di responsabilità, correttezza e buon senso. Una parte della GDO, ad esempio, sa benissimo cosa vuol dire lasciare il campo alla radicalizzazione estremistica come è avvenuto in molti centri logistici e distributivi infestati da forme di rivendicazionismo esasperato. Quindi c’è un grande spazio per individuare forme nuove di scambio, di autoregolamentazione, di arbitrato o di contropartite collegati al negoziato stesso. Sia a livello, aziendale o di comparto. Un sistema moderno di relazioni sindacali non può prescindere da nuove regole del gioco, ma anche di gestione del possibile conflitto, che dovranno accompagnare le aziende nei prossimi anni. È ora di affrontare queste sfide con determinazione ma anche con lungimiranza e mettere in soffitta ciò che deve essere conservato ormai tra i ricordi o tra gli incubi (dipende dai punti di vista) del ‘900.