La GDO ha veramente bisogno di un suo CCNL?

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È ormai evidente che siamo prossimi a possibili cambiamenti nel sistema contrattuale del nostro Paese. Federico Fubini sul Corriere presenta un’ipotesi di percorso graduale allo studio del Governo. Lo schema prevederebbe materie specifiche per il livello nazionale e altre possibili a livello aziendale. La stessa posizione di Federmeccanica punta, pur a certe condizioni, a salvaguardare un ruolo al loro CCNL. Quindi è probabile che l’obiettivo su cui convergere resti quello di costruire un sistema a due livelli indicando in modo chiaro cosa dovrà comprendere il primo e cosa il secondo. Perfettamente compatibile con le opzioni offerte dal CCNL del terziario firmato da Comfcommercio. Federdistribuzione, (ma, per certi versi, anche Confesercenti e Coop) avevano iniziato un percorso alternativo in un contesto politico, sociale e contrattuale completamente diverso da oggi nel quale ipotizzare nuovi soggetti contrattuali o insistere su specificità e peculiarità era ritenuto un punto importante di chiarezza (almeno per i proponenti). La strada intrapresa non solo non ha partorito risultati apprezzabili (almeno fino ad ora) ma rischia di non offrire alle imprese soluzioni utili ma solo ulteriori problemi. Nella migliore delle ipotesi i due punti principali (adeguamento salariale e welfare), in termini di costi, non potranno registrare differenze significative rispetto al CCNL del terziario. Al massimo si porrà un termine di adeguamento delle scadenze reciproche. Quindi la montagna rischia di partorire il classico topolino. La GDO ha sempre avuto il suo vero punto debole nei contratti aziendali perché nelle singole realtà ha dovuto, in passato, subire l’iniziativa sindacale. Ed è evidente che in tempi dove il punto vendita o il sistema logistico era più esposto alle agitazioni, il potere contrattuale del sindacato è sempre stato molto forte. Quindi indennità, inquadramenti, turnazioni e orari sono stati oggetto di “scorribande” che spesso hanno messo in seria difficoltà la gestione stessa dei punti vendita e quindi delle singole imprese. A questo occorre aggiungere che un’azienda “sotto attacco” interno si trovava esposta anche alla aziende concorrenti che ne traevano, in termini di vendite, indubbi benefici. Questo schema, nel passato, ha sempre reso deboli le difese nei confronti del sindacato anche a fronte di richieste assurde (ragionando nell’ottica odierna). Oggi la situazione si è ribaltata. Il sindacato è debole e diviso, i lavoratori coinvolti in progetti di crescita e sviluppo, le regole del gioco sono cambiate e i rapporti di forza sono favorevoli alle imprese. Quindi le aziende stanno cercando da lungo tempo di rimettere in discussione sia la contrattazione aziendale per riprendere definitivamente il controllo di tutti gli aspetti organizzativi che il costo del lavoro in generale. Va sottolineato che questo non è un tema posto strumentalmente dalle imprese. Il settore è in difficoltà, la leva dei prezzi non è oggi utilizzabile, le promozioni le fanno ormai tutti, i margini sono risicati, gli affitti sono di difficile rimodulazione e quindi i vincoli sui costi, sugli inquadramenti e sugli orari pesano ancora di più e le rigidità presenti in molte aziende aggiungono costi che potrebbero essere evitati. In questo contesto, continuo a pensare che la soluzione non è farsi il proprio contratto nazionale perché questa opzione non risolve nessuno dei problemi che non dipendono comunque da quel livello. Forse sarebbe più saggio percorrere altre strade. Magari in linea con l’evoluzione prossima del contesto contrattuale. Welfare e minimi contrattuali che siano di comparto o che siano quelli del CCNL del terziario non hanno alcuna influenza sui costi. Quindi rappresentano solo un problema politico che interessa poco le singole imprese coinvolte. Ovviamente interessa molto di più le federazioni o le confederazioni che lo hanno proposto in alternativa a quello del Terziario. Ma questo è un altro discorso. Altro tema è rappresentato dalla opportunità e dai luoghi dove affrontare l’esigibilità concreta su tematiche costistiche. Iniziando dall’inquadramento che comprende sia il problema della derogabilità del 2103 del cc. o dell’art. 13 della legge 300. Tema veramente importante che andrebbe posto e affrontato seriamente nelle sedi più idonee. Il collaboratore dovrebbe essere retribuito per il lavoro che svolge concretamente. Non per il suo percorso professionale passato. Questo, tra l’altro, non spingerebbe fuori dall’azienda i lavoratori più anziani che potrebbero, al contrario, essere meglio riutilizzati anche in caso di cambio di mansione. E questo è un tema che interessa tutto il comparto del terziario. Così come sarebbe utile poter sperimentare forme di sviluppo professionale in azienda che non siano necessariamente inserite nell’inquadramento tradizionale. Infine formule di derogabilità temporanea o legata non solo è non tanto alle aperture ma anche in particolari situazioni di mercato o locali. Ad esempio mi si dovrebbe spiegare la differenza tra un’insegna che apre ex novo e che ha degli indubbi vantaggi organizzativi ed economici nell’avviamento garantiti dal contratto e quella che subisce quell’apertura perché ne condivide il bacino di riferimento e non ne ha nessun vantaggio. Anzi.  Infine la possibilità di poter variabilizzare parte della retribuzione magari derogando da istituti obsoleti e investendo su forme di coinvolgimento serio sull’andamento economico degli stessi punti vendita. Certo si tratterebbe di abbandonare strade note scelte più per replicare ruoli e luoghi deputati al confronto tradizionale per spingere verso modelli alternativi. E ridare senso e ruolo alla contrattazione decentrata. Ma questo non basta. Le aziende possono fare solo la loro parte. Occorre, e questo è molto importante, che gli interlocutori sindacali decidano la posta in gioco, le nuove priorità e mettano in campo una nuova consapevolezza. Il futuro delle relazioni sindacali potrebbe passare anche da qui.

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