Nel film Quo Vado del 2016 il buon Liuzzi, un cacciatore pugliese ha bisogno della licenza di caccia. Va in Comune portando con sé un piccolo omaggio (una quaglia da cucinare) per il funzionario pubblico interpretato magistralmente da Checco Zalone. Sta per consegnare la quaglia quando ha un ripensamento: “…Checco, ma non è che è corruzione?” “Uh la psicosi…Liuzzi” replica Checco e prontamente risponde: “Corruzione è se tu NON HAI diritto alla licenza di caccia e vieni da me che sono il pubblico ufficiale e dici, senti ti do la quaglia se mi dai la licenza e noi non abbiamo fatto questo accordo. O no? “…Ma allora, non è che è concussione, insinua il povero Liuzzi? “Mhhh, Liuzzi. Concussione è se tu HAI diritto alla licenza di caccia ma io ti dico no, mi devi dare la quaglia. Ti ho fatto per caso questa imposizione? No. E quindi dammi la quaglia.
Non poteva essere spiegato meglio il confine del rapporto a volte trasparente a volte meno con la pubblica amministrazione. Soprattutto quando le esigenze di rapidità di un’impresa entrano in conflitto con la burocrazia ad ogni livello. L’ex sindaco di Lodi del PD, Simone Uggetti, finito in carcere nel 2016 con l’accusa di turbativa d’asta e assolto in via definitiva dopo oltre sette anni e quattro processi, commenta con l’Adnkronos l’arresto del governatore della Liguria Giovanni Toti: “Usiamo gli strumenti della giustizia per fare giustizia, non per fare pubblicità”. Una vicenda che all’ex primo cittadino suscita “amarezza per una sorta di ripetizione di un film di dubbio gusto”, confessa. Precisa ovviamente di non avere alcuna intenzione di entrare nel merito delle accuse mosse a Toti, perché “non ho gli strumenti né il titolo per farlo”. Vale per Uggetti e vale per il sottoscritto.
Vorrei però soffermarmi su un aspetto con il quale, chiunque ha avuto a che fare con lo sviluppo di un’insegna della GDO sul territorio, si è trovato, prima o poi a dovere fare i conti. È questo al di là delle vicende che ciclicamente spingono questa o quella insegna a risponderne. A volte nelle aule di tribunale.
Ricordo una lettera al Corriere di Bernardo Caprotti del settembre del 2013 dove l’ex patron sottolineava “Noi siamo un’azienda multiprovinciale che neppure riesce ad insediarsi a Genova o a Modena, per non dire di Roma ove io poco, ma i nostri urbanisti si sono recati forse 2.000 volte in dodici anni nel tentativo di superare ostacoli di ogni genere… …Per realizzare un punto vendita occorrono mediamente da otto a quattordici anni. Ecco la pallida risposta di un’azienda che di problemi ne ha troppi, che si avventura ogni giorno in una giungla di norme, regole, controlli, ingiunzioni, termini, divieti che cambiano continuamente col cambiare delle leggi, dei funzionari, dei potenti”…
Da allora tante cose sono cambiate. Tante altre, purtroppo no. Il rapporto con la politica e con le istituzioni non è astratto. Avviene attraverso interlocutori. Comporta relazioni, attenzione, ascolto. Spesso piccoli o grandi favori. Anche personali. Non necessariamente illegali. L’enfasi con cui il Fatto Quotidiano racconta dell’azienda vinicola di Brunetta e del desiderio di veder finire il proprio vino sugli scaffali di Esselunga non aggiunge nulla all’indagine in corso. Butta solo fango sui protagonisti. Serve, probabilmente, ad alimentare un teorema giudiziario che, anziché nelle aule di tribunale, dove accusa e difesa possono confrontarsi, viene buttato in pasto all’opinione pubblica per evocarne una condanna preventiva. E questo, a mio parere, è inaccettabile. Per questo l’azienda ha fatto benissimo a rendere noto: “Esselunga dichiara che il proprio management ha sempre agito correttamente ed esprime fiducia nell’operato della magistratura auspicando che si faccia tempestivamente chiarezza sui fatti”. Sia chiaro che sta alla Procura provare le proprie tesi.
Ho gestito personalmente decine di nuove aperture di centri commerciali e supermercati curando selezione del personale, rapporti con la politica e istituzioni locali. Ho ricevuto pressioni, inviti, sollecitazioni. Da ogni lato. Alcune veramente strampalate, altre inopportune. Però nulla di illegale. Tolte dal contesto nel quale sono avvenute, se le raccontassi, ne uscirebbe un quadro desolante del rapporto tra imprese e politica. Anche nel caso in oggetto occorre aspettare la fine evitando frettolose condanne preventive.
La sola critica che mi permetto di fare al board Esselunga è che certe concentrazioni di deleghe e responsabilità non sono comprensibili in un’azienda moderna. I fatti lo dimostrano. L’autorevolezza si conquista ascoltando e coordinando con efficacia ciascuno la propria squadra e gestendo attività e competenze altrui. Quando c’era “LUI” le aperture di punti vendita e i rapporti politici locali erano curati, se ricordo bene, da un (allora) giovane manager che godeva della fiducia della proprietà. C’era quindi un filtro efficace. Anche a tutela del vertice aziendale. Dalla logistica ai subappalti nelle costruzioni e fino alle relazioni con la politica locale mi sembra emerga un limite di gestione. Detto questo, resta comunque per me inaccettabile la messa in scena di un processo mediatico che rischia di indicare colpevolezze tutte da dimostrare e coinvolgere così l’immagine stessa di un’azienda. Soprattutto per rispetto di chi ci lavora. Su questo bisogna essere chiari. Vale per Esselunga come per ogni altra azienda. (l’articolo completo è sul blog)…