La Grande distribuzione italiana è sotto osservazione da parte di alcuni investitori internazionali interessati al nostro mercato. Le difficoltà che hanno incontrato le multinazionali con particolare riguardo al centro sud e poi sull’intero territorio nazionale suscitano però domande a cui non è facile rispondere.
Recentemente mi sono trovato in grande difficoltà a spiegare ad un pubblico selezionato e interessato a capire, specificità regionali, punti di forza di reti locali apparentemente insignificanti, strutture organizzative e manageriali carenti sul piano delle competenze teoriche ma fortemente orientate ai risultati, tipologie contrattuali difficili da inquadrare in un unicum comprensibile, relazioni sindacali a livello locale differenti da ciò che la letteratura ufficiale propone.
Tutto questo in un contesto di regole, controlli da parte degli organi preposti e contraddizioni verticali e orizzontali che richiedono molto tempo e pazienza in chi ascolta soprattutto per chi ha in mente contesti molto più standardizzati.
Il nostro resta un Paese difficile da comprendere per chi vuole investire dove efficacia ed efficienza trovano spesso equilibri che ci riportano alla famosa fake sul calabrone. Quella dove si narra che l’ insetto non potrebbe volare a causa della forma e del peso del proprio corpo relativamente alla superficie alare. Ma il calabrone tutto questo non lo sa, e perciò continua a volare.
Ecco, per molte insegne piccole e medie della GDO, è proprio così. Fatturati e margini interessanti, ottimo rapporto con i propri clienti, insediamenti in posizioni invidiabili, convenienza assicurata dalla partecipazione ad efficaci centrali di acquisto, basso costo del lavoro e scarso turn over delle figure chiave e, ultimo ma non ultimo, grande controllo sociale sui propri collaboratori.
Il rovescio della medaglia di questa efficacia estrema in molti territori rende buona parte del settore difficilmente permeabile dall’innovazione. In altre parole il cosiddetto ventre molle del comparto che è poi la maggioranza dello stesso sia sul piano imprenditoriale che del numero degli addetti, non ha alcun vero interesse a cambiare, ad innovare, a porsi problemi di crescita.
Sta bene come sta con le proprie iniziative promozionali e commerciali, le sue tattiche più o meno aggressive e spregiudicate che costringono i concorrenti che magari vorrebbero pur cambiare ad inseguirli sul loro terreno.
Il sindacato di settore è praticamente assente e in molti casi deve fare i conti con una tipologia di applicazione contrattuale di varia provenienza che consente forti risparmi sul costo del lavoro sia sul piano economico che normativo. Ma anche chiare manifestazioni di dumping a danno delle imprese corrette.
Sopra queste insegne si colloca una seconda fascia che ha una presenza locale o pluriregionale significativa, un management più strutturato, politiche commerciali più standardizzate e che si distinguono per la qualità dell’offerta, per la convenienza e per una buona fidelizzazione dei propri clienti tradizionali.
Sono belle insegne e ottime aziende presenti sia al nord come al sud, buone scuole per professionisti che vogliono crescere. Presidiano il territorio di competenza, propongono iniziative che coinvolgono le comunità interessate, non amano il sindacato ( questo è un tratto comune dell’intero comparto) ma sanno trovare tutti gli equilibri possibili.
In genere applicano il CCNL di Federdistribuzione o, in subordine, quello di Confcommercio. Alcune di queste insegne sono veramente interessanti. Sopra questa fascia ci sono le poche grandi imprese del settore. Alcune presidiano tutti i canali, altre solo alcuni e, infine, i discount, italiani o esteri che stanno crescendo ovunque.
Le insegne più grandi e i discount con loro, sono le sole che possono investire, crescere e innovare perché dispongono delle risorse necessarie. Gli altri sono condannati a copiare ciò che possono e a blindarsi nel proprio territorio di riferimento.
Nella fascia alta i riflettori sono però sempre accesi. Da parte del sindacato di categoria, degli enti preposti, delle istituzioni locali e nazionali. La contrattazione aziendale è ormai in caduta libera e, quello che costitutiva un vantaggio sui piccoli (dimensione, rispetto dei contratti di lavoro, struttura organizzativa, replicabilità del modello, posizioni importanti, attrattività per le risorse migliori, ricca contrattazione aziendale, nella fase espansiva del secolo scorso si trasforma in piombo nelle ali nelle fasi di riorganizzazione, di ristrutturazione e di acquisizioni.
Non è un caso la ritirata dal sud per alcune catene, il passaggio da gestione diretta a franchising per altre, i demansionamenti delle gerarchie di punto vendita, il forte ricorso alla flessibilità del lavoro in entrata. Il rischio di trovarsi in una situazione simile a quella di Federalimentare con una spaccatura verticale sul costo ritenuto “insopportabile” del contratto nazionale tra insegne con esigenze differenti è molto alto.
Quando il CCNL era, di fatto, quello di Confcommercio la GDO era sempre riuscita a stare coperta dietro i piccoli. Con quello firmato da Federdistribuzione la tattica non può essere replicata. Lo vediamo nello stallo sul rinnovo dei diversi CCNL scaduti ormai da un paio d’anni.
L’associazionismo d’impresa è in grande crisi. Sotto scacco nella gestione della pandemia dov’è Confcommercio sembra essere stata confinata in un ruolo marginale, sul suo CCNL si è limitata ad un incontro formale con il sindacato. Stretta tra settori in crisi pesante e voglia di continuare ad esercitare un ruolo di leadership nella GDO ma anche nel terziario non bastano certo interviste e ufficio studi per giocare un ruolo nel futuro del Paese. Le “sberle” incassate sul PNRR non sono certo di buon auspicio.
Federdistribuzione da parte sua ha avuto buon gioco nel rinnovo precedente a scavalcare Confcommercio sull’eccessivo costo contrattuale ma oggi non sembra più in grado di sganciarsi da quella logica. Anche qui gli incontri formali e informali con il sindacato di categoria non segnalano grandi passi in avanti. Le altre due associazioni Confesercenti e Coop seguono gli eventi costretti alla panchina.
L’impasse è evidente. Le vaccinazioni pur fondamentali del personale addetto non registrano passi in avanti, i centri commerciali (invisi sia a destra come a sinistra) sono in attesa che Giorgetti ne consenta l’apertura mentre i sindacati di categoria anziché uscire dall’angolo facendosi promotori di una proposta complessiva di grande responsabilità sono fermi (chi più chi meno) a protestare ancora sulle aperture festive.
L’immagine che ne esce è quella di un comparto complessivamente miracolato dalla pandemia, non in grado di parlare unitariamente forte e chiaro e che non riesce a trovare un punto di incontro con i propri partner sociali come invece ha fatto Confindustria. E i risultati, per gli imprenditori del comparto industriale sono sotto gli occhi di tutti.
Mai come oggi, per come è costruito il perimetro governativo, occorrerebbe maturare la consapevolezza che è cambiata la fase e che occorre prenderne atto e giocare la partita a tutto campo, imprese e sindacato. Ma “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, ricorda Don Abbondio a se stesso al termine del colloquio con il Cardinale Borromeo….