La Grande Distribuzione tra Robin Hood e gli sceriffi di Nottingham.

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Robin Hood in realtà, lo sanno tutti,  non è mai esistito. Nemmeno  lo sceriffo di Nottingham che però, nella vicenda di cui è protagonista ne combina di tutti i colori. Nella saga,  alla fine viene perdonato da Re Riccardo nonostante la sua indubbia cattiveria nei confronti del popolo di Nottingham e di Robin Hood.  Quando in Federdistribuzione  sono rimasti con il cerino in mano qualcuno ha reagito cercando di rifiutare il ruolo del “cattivo” e respingendo, appunto l’idea, che l’eroe delle ballate inglesi del XII secolo venisse  interpretato in esclusiva da un’insegna tedesca.

Il contesto però era chiaro. I sindacati di categoria, ormai esausti dopo un tira e molla durato almeno quattro anni premevano per chiudere dopo la firma con  Confcommercio,  l’opinione pubblica e i media erano chiaramente schierati a favore della conclusione del negoziato e dulcis in fundo, più di un’insegna  aveva fatto filtrare in ogni direzione, sindacati compresi, la volontà di chiudere la partita. Pochi hanno capito l’inutile autogol mentre il film era già ai titoli di coda.

Più che prendersela con Robin Hood ci sarebbe  da interrogarsi su chi ha avuto la brillante idea del “rilancio” dell’ultimo minuto che, oltre a spiazzare alcune insegne, ha danneggiato inutilmente l’immagine di Federdistribuzione. Regalando così a Lidl, per la ragionevolezza della sortita e non per altro, l’attenzione dei media che, al contrario, avrebbe potuto essere condivisa. E quella sortita ha avuto addirittura più effetto mediatico della recente    decisione dell’azienda tedesca di anticipare in un’unica soluzione già nel mese di maggio 2024, l’una tantum che avrebbe dovuto coprire il passato ma che, chi ha gestito il negoziato, ha tignosamente voluto prevederne l’erogazione in due parti di cui una a luglio e una nel 2025.

Due negoziati (Confcommercio e Federdistribuzione) trascinati stancamente  nel tempo per carenza di leadership  nei rispettivi campi non potevano non concludersi prima o poi. Il vero peccato è di aver scelto entrambi di privilegiare la firma in sé alla ricerca  di una volontà di ripartenza comune. Quelle firme chiudevano un lungo periodo tra pandemia e inflazione e avrebbero meritato, a mio parere,  tutt’altra coreografia. Personalmente ho salutato comunque come un fatto positivo quel risultato. E lo confermo. Quindi volterei pagina evitando di soffermarmi all’elenco dei buoni e dei cattivi. 

Cosa però può  insegnarci quella vicenda? Innanzitutto che i contratti con le loro scadenze concordate vanno rispettati. È un segno di serietà. Se il tempo per ragioni esterne si dilata, deve essere condiviso nelle conseguenze. Non imposto. Non c’è nessun vanto a non pagare il giusto ai propri collaboratori. Né a ritardarne il dovuto. Se una azienda che ha appena chiuso i propri bilanci in crescita e presentato i suoi impegni ESG (Environmental, Social, Governance) non si interroga su questo punto e su come non ritrovarcisi in futuro fa, sulla materia, semplice social washing. Toglie credibilità a sé stessa. Il clima che si riesce a costruire all’interno dei luoghi di lavoro è, di fatto, l’azienda. Il resto segue. Troppo facile predicare bene e razzolare male. I problemi legati al lavoro, alla sua valorizzazione e alla sua “manutenzione” sono altri. La maggior parte dei quali, anche per la GDO, non sono tutti risolvibili a livello di insegna. Per questo il CCNL e le relazioni con il contesto sociale, politico ed economico sono fondamentali.

Il quotidiano “La Repubblica” recentemente ha rilanciato un’indagine della società di ricerche  Gallup. La ricerca  “registra nel nostro Paese che, il 26% dei lavoratori over 40 e il 18% degli under 40, si sente “apertamente ostile” al proprio lavoro. Una differenza tra generazioni che si riflette anche in un altro dato Gallup, quello che indaga la soddisfazione: solo l’8% degli under 40 e il 4% degli over 40 si sente “pienamente soddisfatto”. Guardando all’estero, si scopre che la media italiana (6%) è meno della metà di quella europea (13%) e quasi un quarto rispetto a quella mondiale (23%)».

Se è così in generale, non si può non rendersi conto che esiste un problema di attrattività complessiva del comparto della GDO.  Di valorizzazione del lavoro femminile che, insieme ad una politica che favorisca l’arrivo di lavoratori da altri Paesi consenta di gestire l’occupazione necessaria nel prossimo decennio. Nel nostro Paese le donne occupate, infatti, sono circa 9,5 milioni. I maschi, circa 13 milioni. Eurostat rileva che  una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. La decisione di lasciare il lavoro è determinata per oltre la metà, il 52 per cento, da esigenze di conciliazione e per il 19 per cento da considerazioni economiche. Un divario che aumenta in presenza di figli ed arriva al 34 per cento in presenza di un figlio minore nella fascia di età 25-54 anni.

Anche secondo il Rapporto ISTAT SDGs 2023 la distribuzione del carico di lavoro per le cure familiari tra uomini e donne non migliora, ma solo l’istruzione si conferma fattore protettivo per l’occupazione delle donne con figli piccoli. Per quanto concerne la differenza di retribuzione, secondo gli ultimi dati Eurostat, il gap retributivo medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 5 per cento (al di sotto della media europea che è del 13 per cento), mentre quello complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini) è pari al 43 per cento (al di sopra della media europea, che è invece pari al 36,2 per cento).

Su questo occorre considerare il peso del part-time involontario. Ribadisco che, secondo i dati OCSE in Germania il PT involontario è al 5,2% del totale del part-time. La media OCSE è al 13,3% mentre  in Italia è al 52,5%. I subappalti con i loro sotto sistemi cooperativi spuri hanno preso vigore con un carico di contraddizioni difficile anche da riportare nella norma. La carenza di welfare (nidi, politiche per gli anziani, per le famiglie, per  le persone con disabilità, ecc.) contribuiscono a determinare una bassa occupazione femminile e, contribuiscono irrimediabilmente, ad un declino demografico ormai irreversibile. Eppure oltre ad una seria politica in grado di aprire a flussi migratori preparati con lungimiranza  è proprio dal potenziale inespresso del lavoro femminile che occorrerebbe ripartire.

Pensare di risolvere il problema limitandosi a rendere attrattiva, ciascuno a casa propria l’insegna, in un comparto ritenuto complessivamente poco stimolante per le nuove generazioni è una politica miope. Occorre fare molto di più e farlo insieme. Il CCNL è la base. oggi certamente obsoleta  ma utile per poter disegnare, insieme, il futuro del comparto. E questo è compito dell’associazionismo. Unitario o plurale che sia. Capire il nuovo, guidare  il cambiamento è la loro funzione. L’importante è sapere che non è più sufficiente sapere cosa mettere sugli scaffali, fare promozioni o mantenere i propri clienti. Se il “cliente interno” non è soddisfatto e scappa alla prima occasione, tutto questo, prima o poi, entra in crisi. 

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