“Nemo propheta acceptus est in patria sua” verrebbe da dire pensando a Luigi di Maio. La scena completamente occupata da Matteo Salvini che un giorno minaccia l’Europa sul tema dei migranti, un altro evoca il ritorno del contante, un altro ancora lo sconto sui debiti Equitalia. Un mattatore a tutto campo di “lotta e di governo”.
Di Maio proponendosi per il MISE e per il Lavoro ha, a mio parere, investito sui tempi lunghi scegliendo un tema caro alla sua generazione: il lavoro. Tema difficile da affrontare. Soprattutto in un Paese dove chi ha voluto cambiarlo davvero o è stato ucciso o gira con la scorta. Purtroppo ancora oggi.
Da un lato si trova a dover affrontare le pesanti crisi aziendali in corso che aspettano soluzioni e che rendono inutile la retorica semplicistica e sbrigativa della recente campagna elettorale, dall’altro, la traduzione concreta del reddito di cittadinanza sul quale si misurerà la credibilità dell’intero Movimento.
Le opposizioni sono sul piede di guerra, determinate a non concedere sconti e, i media, occupati dal decisionismo di Salvini, sono impegnati a contestarne la sua fragilità personale e l’inadeguatezza della classe dirigente dell’intero movimento in rapporto alla Lega. Quindi deve mantenere i nervi saldi, tenere a bada una base di militanti in subbuglio e contemporaneamente continuare a rassicurare un elettorato potenziale che la mutazione in corso da “movimento a istituzione” non prevede alcuna subalternità alla Lega.
Di Maio si gioca molto insieme alla sua squadra. A mio parere non è un caso che i primi interlocutori di riferimento siano stati i rider e i giovani coinvolti dal lavoro festivo nel mondo del commercio. Figure assolutamente marginali se parliamo dei problemi del lavoro sul tappeto oggi, assolutamente simboliche se parliamo di una generazione in particolare. La sua. Non sono state scelte a caso.
Il neo vice presidente del Consiglio punta a loro e tenta di alzare lo sguardo anche fuori dal nostro Paese in Europa che per certi versi dovrà essere il campo d’azione dove realizzare o meno le proposte del Movimento. Lì ci sono le risorse, le alleanze possibili o le convergenze inevitabili e, ultimo ma non ultimo, le poche prospettive che consentono di trovare le risorse per una crescita economica.
Dentro i nostri confini c’è un Paese indebitato, politicamente diviso, rancoroso, spaccato tra territori e generazioni. Ricomporlo per ripartire non sarà facile. Rassegnarsi ad aver messo in piedi un movimento come i 5S per tirare la volata a Salvini sarebbe semplicemente ridicolo. Se però Il leghista divide, Di Maio può tentare di parlare a quella parte del Paese che è stata lasciata al palo. Abituato al linguaggio e ai temi della sua generazione perché vissuti in prima persona, lancia segnali che lontano da quel perimetro generazionale paiono insufficienti, deboli, addirittura fuori bersaglio. Sempre afoni o sovrastati dai toni Salviniani.
Lui però parla ad una generazione lontana o che si è allontanata dai sindacati e dai movimenti politici tradizionali, precaria nel lavoro e consapevole della propria esclusione dai benefici delle generazioni precedenti. Una generazione che ha codici di relazione differenti e che si è stancata di aspettare.
Contemporaneamente decide però di formare una task force sulle crisi che attendono risposte, cominciando dall’ILVA, comprendendo che l’alternativa tra “morire di fame o morire di cancro” evocata al Congresso della UIL da Carmelo Barbagallo è inaccettabile anche per chi, sicuramente con troppa fretta, aveva semplificato i termini del problema in campagna elettorale e apre, su questi temi, il confronto con il sindacato.
Ascolta la Confcommercio riproponendo temi cari alla piccola e media impresa escludendo a priori l’aumento dell’IVA. Ascolta i rider minaccia ma chiama le imprese del settore, si muove a livello europeo sul tema delle piattaforme digitali mettendo in discussione le fragili mediazioni raggiunte dalla politica in quella sede. E pone se stesso e i suoi uomini come possibili interlocutori di un cambio generazionale, di priorità e di mentalità in corso in tutto il continente.
Non sconfessa Salvini e le sue smargiassate pericolose ma copre Tria e Conte mentre si oppongono a Macron ma con lui ricuciono i rapporti e con lo stesso Draghi a costo di passare per il poliziotto buono della filmografia americana.
Io credo, al contrario di molti, che il neo vice presidente del consiglio stia giocando una sua partita. E la stia giocando bene. Da un lato un movimento che sta mutando e, dall’altro una opposizione ancora alla ricerca di se stessa gli concedono credito e tempo.
Di Maio avrà tra poco 32 anni, Sebastian Kurz cancelliere austriaco, pure, Emmanuel Macron, ha 40 anni, Pedro Sánchez chiamato momentaneamente a guidare il nuovo governo spagnolo, 46 anni. Il suo avversario Albert Rivera di Ciudadanos, suo probabile successore, 38. Il più tosto dei quattro candidati in lizza per sostituire la Merkel, Jeans Spahn, ha 37 anni. Gay e fortemente liberale sui temi sociali, Spahn è un convinto conservatore su economia e migrazione. Nessuno di loro, salvo Sánchez, viene da una marcata tradizione politica novecentesca.
Convivono in loro forti elementi contraddittori ma nessuno di loro li vive come limiti alla propria azione. Non vedo grandi distanze culturali tra di loro. Certo con Macron il rapporto resta complesso e competitivo. Soprattutto perché deve necessariamente utilizzare l’Italia per tenere a bada la sua estrema destra interna.
Tutti loro però sanno che il 900 è alle spalle e che le generazioni che l’hanno attraversato ne presidiano ancora tutti i gangli del potere. E sanno che, nei loro Paesi, dovranno gestire le rendite di posizione, le paure, i disorientamenti, la ridefinizione del peso delle rispettive comunità nazionali, del welfare della fiscalità e del lavoro. E che, Paese per Paese, dovranno misurarsi con forze, rancori e reazioni che già oggi annunciano una loro pericolosità sociale e politica.
L’Italia sotto questo punto di vista è un laboratorio a cielo aperto. Può non piacere perché da noi, per chiudere con il passato, due forze antagoniste sul piano strategico hanno deciso di fare un pezzo di strada, tattico, insieme mettendo in buca tutti gli altri. Personalmente continuo a pensare che questo ruolo di cambiamento e di riposizionamento avrebbe dovuto essere messo in moto altrove. E, a mio parere, Renzi lo aveva intuito e forse anche provato.
Quello che era forse difficile accettare allora e che fosse possibile fermare il declino inarrestabile delle socialdemocrazie ciascuno nel proprio Paese mentre il superamento più acuto della crisi stava sedimentando rancori, disuguaglianze frantumando ovunque il tessuto sociale. E cosi mentre gli egoismi, le paure, il disorientamento di interi popoli spingeva verso una destra-destra, la riorganizzazione di una nuova proposta politica per le nuove generazioni non ha più trovato nella sinistra tradizionale nonostante il rinnovamento tentato, una risposta di cambiamento in linea con le aspettative e all’altezza dei sogni seppure difficilmente realizzabili.
E come ci ricorda Oscar Wilde l’uomo costretto a scegliere tra l’impossibile e l’improbabile, sceglie sempre l’ impossibile. E così è stato. Per questo non è sufficiente, per una opposizione che vuole ritornare sulla scena, fare il verso al governo, sottolinearne le contraddizioni o aspettare che passi la nottata. Il percorso di cambiamento che si è innescato, seppure contraddittorio, non si esaurirà riproponendo spazi politici tradizionali ormai superati. Né buttandosi a sinistra. Il Di Maio al congresso della UIL è stato chiaro. Per chi lo vuole capire. E’ finita un’epoca. Ma anche un modo di fare politica e di segnare i territori della politica stessa e dei corpi sociali.