Ho avuto la fortuna di crescere professionalmente anche grazie al professor Guido Baglioni e ai suoi collaboratori e di lavorare con loro sia nella redazione della rivista “Impresa al plurale” che su alcuni progetti aziendali che ho seguito direttamente nella seconda metà degli anni 90. E quindi non nego che questo tema mi stimola particolarmente.
Se si vuole comprendere le traiettorie della “Partecipazione” nel nostro Paese è anche da lui e dal suo pensiero che occorre partire. Soprattutto perché, dopo l’intervento di Enrico Letta, neo segretario del PD, sembrerebbe che l’argomento possa assumere una nuova accelerazione. A supporto, due interessanti interventi che hanno cercato di interrogarsi sull’attualità della proposta, sul suo possibile sviluppo e sulla sua importanza nella strategia del centro sinistra e degli stessi sindacati confederali. Dario Di Vico sul Corriere (https://bit.ly/3r00ZRg) e Francesco Riccardi su Avvenire (https://bit.ly/3rVYIbf).
È fuori dubbio che l’orizzonte di riferimento sull’argomento in quegli anni comprendeva formule e modalità oggi difficilmente riproponibili. Non è un caso che il tema della “Partecipazione” nel nostro Paese è stato poi circoscritto alle cosiddette “prime parti dei CCNL come terreno di confronto informativo tra sindacati e imprese.
L’evoluzione più interessante sono stati i Comitati Aziendali Europei. Organismi sovranazionali di consultazione limitata ai lavoratori di imprese multinazionali. Un’altra forma di “Partecipazione” si è sviluppata a livello aziendale soprattutto in alcune realtà legando parte del salario dei lavoratori ai risultati dell’impresa. Produttività, redditività, obiettivi economici ne hanno caratterizzato sostanzialmente il campo di azione.
La decisione di favorirla con limitati ma significativi sgravi fiscali ha dato una nuova vita (in parte) alla contrattazione di secondo livello che è andata ad integrare la contrattazione nazionale favorendo un modello di confronto e di scambio win win. Informazioni sull’andamento aziendale e cosiddetto salario di produttività sono state quindi le formule più diffuse. Stock option ai manager, azioni ai dipendenti o altre formule analoghe non hanno trovato né grande interesse delle imprese né particolari richieste da parte sindacale. Così come le esperienze di partecipazione più impegnative che implicano necessariamente un ruolo più significativo sul fronte delle strategie delle imprese da parte dei rappresentanti dei lavoratori.
L’esperienza tedesca è sicuramente quella più evocata purtroppo non sempre a proposito. A volte addirittura confondendo i cosiddetti “consigli di sorveglianza” propri di quel Paese con i Consigli di Amministrazione delle imprese che sono tutt’altra cosa. Altro Paese, altra cultura. Tutti questi modelli, per certi versi un po’ datati, sono difficilmente riproponibili oggi se non in realtà ben circoscritte. Per affrontare costruttivamente il tema occorre partire da un chiarimento sul ruolo del sindacato. Il nuovo modello partecipativo prevede un salto culturale unitario e a tutti i livelli. Che, purtroppo, in larga parte è ancora assente. Resta fortunatamente quello che è avvenuto nei contratti nazionali che si sono via via succeduti soprattutto nel comparto industriale che ne fotografa il raggio d’azione.
Roberto Benaglia segretario generale della FIM aggiunge al dibattito la sua lettura della proposta di Enrico Letta (https://bit.ly/2PfYBsj). Ne allarga il campo com’era prevedibile seppure inserendola in una prospettiva diversa dal passato. È importante sottolinearlo per non riportare la discussione in un vicolo cieco aumentando il tasso di confusione sul tema.
In diverse imprese e non necessariamente per iniziativa sindacale si sono sviluppate formule di coinvolgimento dei lavoratori su diversi piani. Il tasso di collaborazione è decisamente aumentato. Si condividono obiettivi, decisioni sul piano organizzativo, forme di incentivazione. Le aziende anticipano e rendono partecipi i collaboratori delle proprie strategie, concordano piani di formazione e di sviluppo, condividono valori e incentivano la necessità di assumersi responsabilità individuali e di gruppo.
Luoghi e tempi di lavoro vengono messi sempre più in discussione e questo presuppone inevitabilmente livelli maggiori di corresponsabilizzazione. Difficile inserire queste pratiche come insinuano alcuni commentatori in una sorta di neo paternalismo 4.0.
Di Vico ha ragione quando scrive che “la vera innovazione da introdurre nello schema partecipativo è quella che riguarda la connessione con le nuove tendenze della tecnologia e più in generale dello stesso capitalismo”. È da lì che può passare il nuovo approccio. Niente di riconducibile, se non in termini teorici, al passato.
Le realtà, almeno quelle più attente, si misurano con i cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social and Governance). La sostenibilità dell’impresa e delle proprie iniziative sul piano ambientale, sociale e di governance sono parametri fondamentali per le aziende che guardano avanti.
L’impatto che le imprese hanno sull’ambiente e sul territorio, Il rispetto dei diritti umani, l’attenzione alle condizioni di lavoro, la parità di genere e il rifiuto di tutte le forme di discriminazione diventano parte delle politiche aziendali più attente e sensibili. Ne costituiscono una caratteristica al pari della capacità di fare business. Ma anche, in tema di governance il rispetto di criteri meritocratici, le politiche di diversità nella composizione dei consiglii di amministrazione, il contrasto ad ogni forma di corruzione, l’etica retributiva. Ed è da qui che, credo, bisognerebbe partire.
In molte imprese il percorso è già iniziato da tempo. Il salto culturale che è richiesto al sindacato, se non vuole scadere nella retorica partecipativa del secolo scorso, è quello di sapersi misurare nei contratti e nelle aziende con questi temi. È un percorso necessario se non si vuole (ri)mettere il carro davanti ai buoi auspicando salti logici che non porterebbero da nessuna parte.
Il problema non sono i pochi) grandi gruppi con i quali possono essere praticate scorciatoie per raggiungere l’obiettivo formale e mettere la propria bandierina. È un problema di strategia che, in un tessuto imprenditoriale e sociale come quello italiano deve crescere consapevolmente. Da entrambe le parti. Altrimenti sprecheremo un’altra occasione.