Il neo presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento ne ha fatto un punto centrale, Susanna Camusso lo ha immediatamente respinto bollandolo come “vecchio”. Al di là delle affermazioni di parte la necessità di incrementare la produttività nelle imprese e nel Paese viene così riportata al centro del dibattito. Innocenzo Cipolletta, al festival dell’economia di Trento, ha affermato che se in questi anni di crisi avessimo avuto un incremento della produttività avemmo avuto solo ricadute negative sull’occupazione. Croce e delizia degli addetti ai lavori il tema della produttività ritorna ciclicamente come elemento centrale del confronto tra le parti sociali. E ritorna non avendo risolto le evidenti criticità del tema legate innanzitutto alla platea delle imprese coinvolte dalle statistiche, alla sua individuazione in un contesto economico sempre più post fordista e, ultimo ma non ultimo, alla necessità, sempre più presente nelle imprese, di andare oltre semplici recuperi di efficienza, pur indispensabili, ripensando in modo radicale i modelli di busines, i rapporti tra impresa, fornitori e collaboratori ma anche tra imprese e sindacato. È indubbio che, per quanto riguarda il nostro Paese, la mancata crescita della produttività negli ultimi 10/15 anni ci pone in difficoltà sia rispetto ai Paesi che trainano l’economia mondiale sia rispetto a quelli che, nonostante la crisi, non hanno mai cessato di crescere. Nella visione comunemente accettata le ragioni sono sostanzialmente due: l’insufficiente dimensione delle imprese italiane e lo scarso contenuto tecnologico delle nostre produzioni principali. A ben vedere, però, la bassa produttività si concentra principalmente in due classi di imprese manifatturiere. Quelle sopra i 250 addetti e quelle sotto i 10 addetti. Le prime già in sofferenza sia in termini di fatturato che di prospettive, le seconde dove “sopravvivono” larghe fasce di produttori “inefficienti”. Se, al contrario, ci dovessimo concentrare sulle imprese da 10 a 250 addetti i risultati sarebbero ben diversi e sicuramente più positivi ma la maggiore numerosità delle imprese non è in questo cluster. Da qui il “grido di allarme” del Presidente Boccia sulla necessità, per gli imprenditori, di crescere. A mio parere credo che mentre si possa in tempi ragionevoli lavorare sui fondamentali delle grandi imprese supportandole nella crescita, non sarà altrettanto semplice passare dalle aspirazioni generali agli impegni concreti per quanto riguarda le micro imprese manifatturiere. Quindi insistere su questa strada rischia di essere fuorviante. Forse sarebbe meglio rendersi conto che nella nuova sfida economica globale il problema della dimensione aziendale va visto diversamente dal passato e va inserito in contesti che vedono le filiere, i cluster territoriali, le reti come i luoghi dove le singole imprese contribuiscono, specializzandosi e organizzandosi, alla creazione del valore. Al centro della riflessione ci dovrebbe essere la dimensione del sistema nel quale l’impresa è inserita e non necessariamente quello dell’impresa stessa quindi la produttività generata dall’insieme della filiera, del cluster o della rete. Fuori da questa impostazione è facile pronosticare l’intensificarsi del declino soprattutto in rapporto ai nostri concorrenti. Incrementare la produttività in modo nuovo significa operare su due livelli; da un lato occorre lavorare sui rapporti tra manifattura e servizi con l’obiettivo di sviluppare nuove forme di impresa e dall’altro investendo nelle reti e negli altri sistemi di aggregazione in modo da creare economie di scala significative. Questo tra l’altro consentirebbe di superare un nodo che oggi appare sempre di più improponibile nel confronto tra le parti sociali e cioè che il massimo della produttività si possa ottenere solo forzando la mano sul fattore lavoro. A mio parere non è competendo sul low cost di Paesi dove i lavoratori sono disposti ad accettare condizioni di lavoro pessime e in presenza di scarse tutele sindacali e giuridiche che possiamo recuperare un percorso virtuoso. Occorre rilanciare il tema della collaborazione, della condivisione dei rischi e delle opportunità tra imprese, manager e lavoratori. La nuova frontiera è in una rivisitazione moderna della partecipazione del lavoro allo sviluppo delle imprese. E questo potrebbe costituire la vera sfida anche per il sindacato confederale. Infine occorre che nei nuovi modelli di business delle imprese vengano introdotte elementi di qualità e di relazione connaturati con la logica dei servizi prima che della fabbricazione industriale in senso classico. Non basta utilizzare al meglio le nuove tecnologie ma occorre investire nello sviluppo delle capacità creative e costruire reti di collaborazione con altre imprese. Un percorso nuovo che sappia mettere al centro l’innovazione in tutte le sue componenti e che proponga l’azienda come il luogo dove si crea valore per l’imprenditore, per le persone che vi operano e per la comunità nella quale l’impresa agisce.