La conclusione dell’ultima tornata dei rinnovi contrattuali nel terziario di mercato segnala la necessità di una urgente riflessione a 360°. Innanzitutto occorre sottolineare che le parti contraenti più importanti hanno provocato, più o meno consapevolmente, una forte discontinuità rispetto alla situazione precedente: i dipendenti dei settori dei Pubblici esercizi, della Ristorazione e del Turismo hanno lasciato il contratto nazionale fino ad allora condiviso con Federalberghi così come Federdistribuzione che si è firmata un suo contratto.
La stessa Confesercenti ha ottenuto modifiche economiche al testo di Confcommercio costringendo quest’ultima a chiedere uno sconto ai sindacati di categoria. Infine Coop da sempre prodiga in fase di rinnovo ha ottenuto un risultato economico a cui Federdistribuzione ha reagito malissimo. Che dire.
Oltre ai contratti pirata che nel terziario raggiungono numeri significativi la stessa contrattazione tra i soggetti più rappresentativi si è tradotta in una gara al ribasso infinito che ha avuto come epicentro il solo commercio e che ha lasciato alla finestra tutte le tematiche di innovazione e di cambiamento.
Sindacati e associazioni datoriali hanno quindi cercato di difendere le rispettive rendite di posizione sottovalutando due aspetti di prospettiva.
Innanzitutto che la prossima tornata rischia di essere all’insegna del rinvio infinito perché nessuno oserà partire per primo per non essere penalizzato sul piano economico. Un responsabilità che, a mio parere, è interamente sulle spalle del sindacato di categoria che, per eccesso di tatticismi e per compiacere le rispettive controparti non ha saputo mantenere il punto accettando supinamente la corsa al ribasso.
In secondo luogo una tornata contrattuale che si è svolta all’insegna del “sottocosto” non ha consentito di affrontare le tematiche più care al terziario innovativo. In altri termini entrambe le parti seppur con responsabilità e sfumature differenti hanno dimostrato la loro inadeguatezza sul piano del cambiamento e dell’innovazione.
Il rischio che tutto questo rincorrersi verso il basso certifichi e legittimi una gigantesca area di lavoro dipendente povero è molto forte. Così come che in qualche modo si accetti l’idea della permanente coincidenza tra terziario e piccolo commercio che ha funzionato nel 900 ma che, oggi, non ha più ragione di essere confermata. Quindi la rappresentanza del terziario innovativo sul piano contrattuale è ancora tutta da aggiudicare.
Confcommercio, da parte sua, ha affidato la responsabilità politica della Commissione Lavoro al Presidente della FIDA, nonché vicepresidente confederale, ribadendo così la scelta di confermare nel piccolo commercio e nelle sue esigenze il baricentro contrattuale prossimo venturo. Quindi la necessità di insistere ancora di più sul costo del lavoro.
E’ una scelta legittima, ovviamente, che però definisce e ribadisce una cultura e un percorso. Questo apre inevitabilmente diversi scenari. Tutti da esplorare.
Innanzitutto Confindustria non credo starà alla finestra. Ci ha già provato ai tempi del “patto della fabbrica” a richiedere ai sindacati confederali la possibilità di ottenere una sorta di opzione sul terziario di derivazione industriale. Allora la richiesta fu respinta al mittente. Oggi sarebbe più difficile un analogo atteggiamento vista le scelte dello stesso sindacato confederale su pubblici esercizi e Grande Distribuzione. Il problema semmai è come articolarla nella realtà negoziale vista la tradizionale suddivisione categoriale del comparto industriale e le inevitabili gelosie sui confini associativi.
La rappresentanza negoziale però non discende da un diritto divino che, una volta acquisito, vale per sempre. La difesa di un perimetro necessità di una strategia vera sul terziario in rapida evoluzione che oggi non ha nessuno. Le imprese più dinamiche faticano così a riconoscersi in uno schema contrattuale ormai vecchio e superato. Per questo la prossima tornata contrattuale, da questo punto di vista, sarà un vero banco di prova interessante.
Confcommercio, a mio parere, affronta questa sfida nel momento peggiore. L’assenza pubblica di questi mesi dal dibattito che conta sul salario minimo e sulla certificazione della rappresentanza ne è una conferma.
I sindacati confederali, da parte loro, non sanno come muoversi incastrati da un lato, dal rischio di farsi trascinare in una situazione di stallo sul piano negoziale e, dall’altro, di mettere in discussione un sistema da cui traggono indubbi benefici anche economici. Per queste ragioni i prossimi mesi saranno determinanti per il futuro del più importate contratto confederale del nostro Paese.
Un contratto nazionale che gestisce un welfare significativo in un comparto coinvolto in misura insignificante dalla contrattazione aziendale o territoriale non può trasformarsi in un contenitore esclusivo di lavoro povero. Deve essere ripensato.
Può scegliere di essere più leggero nelle tematiche generali per poi lasciare campo libero alle diverse realtà nei suoi sottosettori principali, recuperando così anche la Grande Distribuzione oppure insistere in uno schema inclusivo e onnicomprensivo. Può innovare recuperando e rilanciando sulla formazione e sulle politiche attive o insistendo sulla attrattività del basso costo.
Può dare spazio alle sue federazioni più innovative o lasciare che il piccolo commercio mantenga una leadership di vecchio conio. Può, perché no, anche condividere con altre organizzazioni datoriali percorsi innovativi. Non saranno scelte facili. Vedremo chi si assumerà le responsabilità di decidere.