La rappresentanza nell’era dell’uno vale uno…

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La difficoltà ad incidere concretamente la nuova realtà politica e sociale da parte delle organizzazioni di rappresentanza è sempre più evidente. Dario Di Vico, sempre attento a questi fenomeni, ritorna sul Corriere di oggi  (http://bit.ly/2KOHKVE) ad insistere su di un punto a lui molto caro: il potenziale “tradito” dagli aderenti a Rete Imprese Italia, una sorta di alleanza virtuale sostanzialmente difensiva che ha cercato di mettere insieme la rappresentanza delle piccole e medie imprese italiane.

Nata nel 2006 più per dare una dimensione intercategoriale alla protesta contro i contenuti della legge finanziaria dell’allora Governo Prodi ha scoperto, strada facendo, di poter provare ad ambire a qualcosa di più importante: una sorta di rappresentanza di un ceto medio che cominciava a pretendere, seppur in modo disordinato, un ruolo e una decisiva importanza nell’economia del Paese ma anche la propria fragilità nei meccanismi indotti dalla globalizzazione.

L’intuizione, sul piano politico, era interessante ma presupponeva una continuità che però non c’è stata. Il mantenimento di una identica volontà di equidistanza combattiva con i governi che si sarebbero via via succeduti, una generosità sul piano organizzativo e delle scelte non sempre convergenti sul piano degli specifici interessi rappresentati, una gestione a livello locale meno competitiva delle singole sigle e, ultimo ma non ultimo, una visione della evoluzione della situazione economica e della crisi che avrebbe devastato, di lì a poco, proprio le piccole e medie imprese e schiacciato verso il basso l’intero ceto medio.

A dire il vero alcuni tra gli intellettuali più impegnati nel progetto, a cominciare da Giuseppe de Rita ma non solo, avevano cercato di tenere il punto ma le dinamiche e gli equilibri organizzativi avevano ormai preso altre direzioni. 

Da quel momento in poi è stato evidente che non sarebbe stato possibile né un passo in avanti né uno indietro. L‘ effervescenza delle ragioni che avevano indotto a marciare uniti si è via via attenuata cedendo il passo ad un maggiore realismo di percorso.

A differenza di Di Vico io credo però che non sarebbe cambiato nulla rispetto ad oggi. Quella scelta era nel solco della politica tradizionale che abbiamo ormai alle spalle e in competizione con una Confindustria che, a torto o a ragione, pretendeva di rappresentare quasi in esclusiva le esigenze  delle imprese di ogni dimensione.

La crisi, i processi di digitalizzazione, il tramonto del fordismo spingono le imprese di oggi  a superare i vecchi confini settoriali e dimensionali accentuando i processi di terziarizzazione dell’industria e di industrializzazione del terziario ponendo alle organizzazioni di rappresentanza nuove sfide alle quali, queste ultime,  rischiano di presentarsi impreparate o chiuse in vecchi modelli autoreferenziali.

Il movimento 5s nasce nel 2009 proprio come risposta confusa ma decisa ad un malessere sociale che individua nell’establishment economico, nella politica espressa nella prima così come nella seconda repubblica  e nelle organizzazioni di rappresentanza le vere cause dell’immobilismo del Paese.

Ed è chiaro che quando la velocità e la capacità di movimento delle organizzazioni è inferiore a quella del contesto che le circonda la crisi e la possibile emarginazione  iniziano a prendere il sopravvento.

La tanto vituperata  disintermediazione è un processo inevitabilmente a due vie. Dall’alto quando il decisore scavalca le istanze della rappresentanza ma anche dal basso attraverso la rinuncia a farsi rappresentare o a ritrovare, nel rapporto diretto con la politica, le risposte necessarie al proprio lavoro e alle proprie aspettative. Questi due processi sono entrambi già in essere. E non si fermeranno facilmente. 

Il problema vero è che le organizzazioni della rappresentanza continuano con i loro riti e le loro liturgie non accorgendosi che la talpa sta scavando in profondità e presto rischia di arrivare ai pilastri fondativi. La via di uscita, però, non è semplice.

Il 4 marzo è successo ben di più di un semplice avvicendamento che riguarda partiti vecchi e nuovi. E non basta sedersi sulla riva del fiume in attesa  contando su errori, ingenuità, interventi dall’alto o dai mercati. Questi ci saranno certamente ma non cambieranno di segno i profondi processi di cambiamento strutturale in corso che sono solo all’inizio. Può darsi che modificheranno forma e colore ma la sostanza indiscutibile è che indietro non si torna. 

Così come la politica anche la rappresentanza si trova davanti ad un bivio. Interpretare il nuovo che avanza nell’interesse dei propri rappresentati o rassegnarsi al proprio declino.

E la nuova rappresentanza innanzitutto dovrebbe saper uscire dai recinti che si è creata essa stessa nel 900.

Sia verticalmente accogliendo tutti i tipi di impresa in un modello che trova nella filiera i nuovi punti di aggregazione e di risposte necessarie ad un’economia che si confronta sul piano globale ma anche orizzontalmente offrendo nuovi modelli di confronto dei rispettivi interessi con i soggetti che nelle filiere interagiscono a monte e a valle dell’impresa. Quindi fornitori, banche, lavoratori, manager, consumatori, ecc.

Ad una politica che individua nell’uno vale uno la risposta alla complessità occorre saper contrapporre sintesi più alte tra interessi diversi. Per questo è inutile attardarsi su vecchi modelli postulati dal passato che si limitano ad aggregare sigle e poltrone ma non interessi e risposte perché così si rischia di non andare da nessuna parte.

Non bisogna avere nostalgia di ciò che “avrebbe  potuto essere se..”. Quel tempo è passato per sempre. Oggi occorrerebbe partecipare con ottimismo e fantasia  alla costruzione di qualcosa di nuovo.

Prendendo a prestito una bellissima definizione di un filosofo dell’800 di cui non faccio il nome lo slogan che dovrebbe animare le diverse organizzazioni dovrebbe  essere: “da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Generosità, entusiasmo e determinazione. Sono le caratteristiche richieste alle persone di buona volontà. Prima che sia troppo tardi.

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