Un caro amico HR mi ha appena raccontato una storiella semiseria forse adattata al passaggio alla fase 2.
“La quarantena sembra ormai alle spalle e finalmente si ritorna in azienda. Durante l’intervallo del pranzo tre persone decidono di concedersi quattro passi ed escono dalla loro mega sede nel quartiere di Porta Nuova a Milano. Sono il Direttore Risorse Umane, una sua collega del Marketing e il Rappresentante Sindacale. Mentre passeggiano la collega del marketing nota una vecchia lampada di ottone incastrata sotto una rientranza del marciapiede. La raccoglie e, nel tentativo di ripulirla, la sfrega facendo improvvisamente comparire il famoso genio.
La donna sobbalza dalla sorpresa. Il genio circondato da una nuvola di fumo bianco osserva i tre e annuncia: “Avete dunque tre desideri”. Uno a testa. Ditemi e io li esaudirò immediatamente”. La collega del marketing parte per prima tutta felice. “Vorrei che lo smart working diventasse veramente la regola così potrò continuare a lavorare da casa”. Pof! E sparisce. Il rappresentante sindacale ci pensa un po’ e poi esclama: “vorrei che cambiasse radicalmente il lavoro!. Basta orari fissi, sedi, scrivanie, gerarchie! Pof! E sparisce anche lui.
Resta il Direttore Risorse Umane. Il genio lo vede perplesso e allora lo incalza invitandolo ad esprimere l’ultimo desiderio. Anche lui ci pensa per un po’, poi guarda l’orologio, con una mano si gratta la testa e dice al genio: “Beh, l’intervallo è quasi finito. Voglio quei due alla loro scrivania entro dieci minuti!” Pof!” Fine della storiella. Temo evidenzi la realtà.
Vedo tanti, troppi equivoci sul lavoro intorno a questa ripresa. Sento parlare di cambiamenti che difficilmente ci saranno. Di fantasiose riduzioni d’orario a parità di stipendio, di responsabilità sul rischio di contagio messe sulle spalle del datore di lavoro. Di richieste strampalate di regolamentare lo smart working da parte dei sindacati dei dirigenti siciliani in Regione o di allargare il concetto di infortunio agli incidenti domestici in tema di lavoro a distanza.
In molti interventi non sembra esserci la percezione della gravità della situazione economica con le inevitabili ricadute attese sul piano occupazionale non appena la realtà prenderà il sopravvento sulle fantasie da chiusura forzata. O forse, proprio per distrarre dal contesto si rischia di bruciare ogni possibilità di cambiamento vero che non può che essere concreto, graduale e sperimentale.
E così un ricorso emergenziale al lavoro a domicilio viene spacciato come l’alba di un cambiamento epocale, confuso con lo smart working di cui non è nemmeno un lontano parente. Ci sono molte aziende che nel mondo e in italia hanno adottato lo smart working ben prima del Coronavirus. Aziende lungimiranti che hanno una visione precisa del lavoro e della sua possibile evoluzione, del coinvolgimento dei collaboratori sugli obiettivi aziendali e che attuano politiche di retention e di sviluppo delle persone. Molte altre potrebbero seguirle ma non saranno certo le discussioni approssimative di questi giorni ad invogliarle. Infine molte altre ancora si spingeranno verso queste modalità con l’unico scopo di ridurre i costi. Altro che svolta epocale..
Le prime non sono state colte di sorpresa. E forse è proprio partendo da queste esperienze che molte altre potrebbero seguirle strutturandosi diversamente. Ha ragione Marco Bentivogli: “il lavoro intelligente non ha nulla a che fare né con il telelavoro né con il lavoro d’ufficio svolto da remoto. Lo smart working va contrattualizzato ed è il frutto di un processo di partecipazione, dal basso, guidato non da bisogni di sicurezza e sopravvivenza, ma dalla necessità di cambiamento e benessere del lavoratore.”
In altre parole non ci sarà alcuno smart working senza un cambiamento culturale profondo che metta al centro il lavoratore, il riconoscimento del suo contributo al successo dell’azienda, il suo engagement. La sua professionalità. Non tutte le aziende sono pronte a questo passaggio. Molte non sono neppure intenzionate a farlo.
Dare i voti alle imprese, forzare la situazione proponendo impostazioni rigide significa rallentare qualsiasi disponibilità alla sperimentazione. La diffusione dello smart working non è dietro l’angolo. La priorità è la ripresa del lavoro nelle imprese. L’autunno porterà con sé la necessità di capire quanto le risorse economiche e gli strumenti individuati sono stati efficaci o meno e quanti esuberi strutturali ci si troverà a gestire. E quanto questo peserà sul tessuto sociale del nostro Paese.
Ha ragione il sociologo Luca Ricolfi quando ci ricorda che “sul piano economico-sociale la più grande bugia di questo governo è stata di lanciare il messaggio: nessuno perderà il lavoro, nessuno sarà lasciato indietro”. Una illusione pericolosa che rischia, questa si, di radicalizzare il confronto tra le parti sociali e bruciare ogni possibilità di convergenza che è l’unica carta che ha a disposizione il Paese per rimettersi in cammino.
Continuo a pensare che la priorità sia la costruzione di un patto sociale che metta al centro l’impresa e il lavoro. Quindi il futuro del Paese. Se le imprese non sono messe in condizione di riprendere a produrre ricchezza non saranno certo le provocazioni di una parte del sindacato e della politica a favorirne la ripartenza. Con tutte le conseguenze del caso.