Leggendo la descrizione del padre, proposta dai due fratelli Caprotti, sembra di rivivere la parabola indiana dei ciechi a cui è chiesto di descrivere un elefante semplicemente toccandolo con una mano. Lo stesso elefante viene così presentato, a chi ne ascolta il resoconto, in modo completamente diverso. C’è chi lo racconta come una colonna avendogli toccato la gamba, chi come una lancia avendogli toccato le zanne e a chi come una frusta, avendogli toccato la coda. Un padre che con il primogenito si comportava più da capo azienda passando una parte del suo tempo a frustrarne l’iniziativa in competizione perenne con lui mentre con la figlia “sbucciava i piselli” dopo la spesa al supermercato. Intollerante e crudele con il primo, affettuoso e premuroso con la seconda al punto da improvvisare “negli ultimi giorni di vita, lucidissimo, istruzioni pratiche su tutto, a cominciare dai collaboratori” come racconta in una intervista al Corriere la figlia Marina.
Una frattura verticale maturata negli anni assolutamente non ricomponibile che ha coinvolto amicizie, manager, collaboratori aziendali ad ogni livello. Tutt’altro che superata. E che per la natura, la dimensione e la composizione, poco più che familiare dell’azienda, caratterizzerà a lungo i giudizi sulla qualità delle scelte manageriali, sui protagonisti di quelle scelte e sulle prospettive future di Esselunga. Le traiettorie vincenti imposte da Bernardo Caprotti ma anche quelle che hanno visto protagonista il figlio Giuseppe costituiranno una pietra di paragone costante, fastidiosa ma inevitabile per chi deve dimostrare “qui e ora” e per gli anni a venire di meritarsi sul piano delle scelte imprenditoriali ciò che l’eredità le ha messo a disposizione. E che rende interessante, almeno per il sottoscritto, seguirne gli sviluppi.
È chiaro che il successo del libro “Le Ossa dei Caprotti” è un po’ figlio della predisposizione, tipica nostrana, di guardare gli altri attraverso il buco della serratura. Giuseppe Caprotti ha distribuito fatti e racconti di cui è stato protagonista diretto o come “testimone informato sui fatti” per raccontare la “SUA” verità. Il lungo tempo preso per metabolizzare quello che per lui ha rappresentato un grave torto subìto e per descriverne le ragioni ne è la testimonianza. Chi lo ha criticato per la mancanza di sensibilità, generosità e capacità di perdono cristiano per ciò che ha ricevuto comunque in cambio ha dovuto sfoderare un paternalismo d’antan. È certamente più facile metabolizzare i torti (presunti o reali) altrui, che i propri.
Giuseppe Caprotti è stato “forgiato” e istruito fin da ragazzo per assolvere un compito preciso: guidare l’azienda di famiglia. Rinfacciare oggi, status o denaro, ad un signore borghese di quasi sessantaquattro anni, ricco e benestante, cresciuto e abituato agli agi da generazioni è un po’ banalizzare una realtà amara. Capisco che molti nella GDO lo ritengano semplicemente il “giovane figlio” di Bernardo Caprotti, oggi come ieri, ma nessuno nel mondo del business pensa di accusare di ingratitudine gli eredi di Agnelli con madre e figli che si trascinano in tribunale con stuoli di avvocati. O le vicissitudini familiari dei De Benedetti, Benetton o Del Vecchio per citare solo i più noti. O all’estero i Murdoch e le lotte intestine in casa Volkswagen tra la famiglia Porsche, erede diretta del fondatore, l’ingegner Ferdinand, e quella dei successori Piëch. La differenza è che, di solito, splendori e miserie non finiscono sotto i riflettori descritti così brutalmente e minuziosamente. Che si sia sentito tradito e offeso ingiustamente, ci sta. Soprattutto dopo aver dedicato una lunga parte della propria vita all’azienda e dopo aver dovuto accettare, obtorto collo, di passare la mano non ad un agguerrito competitor proveniente da oltreoceano ma alla giovane sorella che mai aveva messo piede in azienda e che non era stata “costretta” a subire un’iniziazione aziendale lunga e faticosa con un finale ritenuto, da lui, drammatico che ne ha segnato il profilo umano e manageriale.
Coop, la protagonista del 2007 dell’ossessione del padre, diventa, oggi per altre ragioni, l’incolpevole veicolo utilizzato per accompagnare la replica della figlia al ramo perdente della famiglia. “La risposta è sempre all’interno del problema, mai al di fuori” direbbe McLuhan. Inutile creare diversivi. “Falce e Carrello”, salvo nella “lettera a Papà” e nella prefazione di Liliana Segre resta un libro datato. L’Italia fotografata da Bernardo Caprotti non c’è più. Esselunga deve fare ben altri conti con i discount, i nuovi concorrenti e, soprattutto, con sé stessa. Il termine “caparbietà”, ad esempio, proposto nell’intervista al Corriere, definita una caratteristica distintiva dei Caprotti secondo la figlia è positiva, lo confermo anch’io da osservatore HR, purché non sconfini nella testardaggine o nella mancanza di ascolto dei collaboratori. In azienda un difetto temuto e, a volte, sottolineato da molti che, Caprotti senior, pur nel suo forte decisionismo caratteriale aveva saputo tenere all’interno di un’efficacia gestionale indiscutibile. Per certi versi oggi Esselunga comincia proprio a mostrare gli stessi problemi dei vecchi “arcinemici” del padre (dalla logistica alla gestione dei punti vendita). È chiaro però l’obiettivo della nuova edizione del libro. In un Paese dove si tende a lasciare chi perde al suo destino, soprattutto se ben remunerato, accumunare sotto lo stesso tetto Giuseppe Caprotti alle vecchie intemerate del padre contro l’universo Coop, per quello che si presume possa ancora rappresentare nel contesto sociale, è una mossa ben studiata. Serve a creare il campo da gioco della rivincita. Se però sgombriamo il tavolo quello che rischia di essere una semplice caricatura della realtà concorrenziale di oggi agli occhi di chi legge resta solo una brutta diatriba familiare legata ad un’eredità nella quale “volano gli stracci”. Non è la prima, non sarà l’ultima.
La “lettera a Papà” di Marina Caprotti che ho letto con attenzione è comunque sincera e profonda. Esprime lo stato d’animo di una figlia che si è sentita colpita negli affetti più cari e si impegna a raccontare il padre a cui era molto legata. E quindi capisco la determinazione di volerne difendere la memoria. Così come i ricordi di Liliana Segre. Le amicizie vere, e quella della Segre con Caprotti senior lo è, hanno un valore proprio perché si palesano quando sono decisive. Non formali. E, in questa situazione lo sono state. Un’amicizia sincera di lunga data, durata fino alla morte del vecchio patron di Esselunga. Liliana Segre fu una delle pochissime persone invitate al suo funerale. Caprotti fu certamente fondamentale per la ristrutturazione del memoriale della Shoah sotto la stazione Centrale di Milano. Ma sarebbe riduttivo limitarsi a legare il rapporto tra i due a quella o altre iniziative specifiche. Liliana Segre parla del valore di quell’amicizia e della ricerca di Caprotti “di affinità elettive e non elettive che legavano due vecchi signori d’altri tempi”.
Bernardo Caprotti comunque la si pensi è stato un imprenditore unico, importante per la crescita del comparto e per il nostro Paese. Capace di remare controcorrente quando il contesto lo imponeva. Il destino della sua famiglia e dei i figli si è così compiuto. Adesso occorrerebbe girare pagina. Da sottolineare la chiosa finale di Marina Caprotti, che fa sue le parole del padre: “Nessuno a Dio piacendo e me vivente, potrà mettere le mani sull’Esselunga. Nessuna “cordata”, nessun rider di provincia, nessun concorrente inesperto, nessun finanziere d’assalto”. Se sarà così o se si paleseranno pretendenti con caratteristiche diverse, da quelle escluse categoricamente, lo capiremo solo vivendo….
Il libro di Giuseppe caprotti e’ importante aldilà della diatriba familiare per una serie di motivi che chiariscono aspetti fondamentali:
1- la storia della famiglia ben lungi da risalire alle vicende esselunga e’ la storia innanzi tutto di grandi proprietari terrieri poi di importanti imprenditori tessili e quindi della GDO ricopre cioè gli ultimi 3 secoli quelli della rivoluzione industriale
2-Esselunga a Milano nel 57 nasce ad opera di Nelson Rochfeller che sceglie (insieme alla CIA in funzione anticomunista) alcuni soci di minoranza per facilitare l’ottenimento delle licenze. Solo nel 61 e poi nel 71 diviene proprieta’ di Bernardo caprotti che utilizza finanziamenti di Roberto Calvi e facilitazioni di Sindona sul prezzo di acquisto delle quote di minoranza
Esselunga.
Bernardo Caprotti.
Se hai lavorato a diretto contatto con “IO, ME, MI…..il Dottore” puoi capire tanti perché dell’uomo e della sua azienda, puoi scrivere libri, puoi trovare risposte.
Invece non lo farai mai perché quella è una storia individuale/familiare della quale tu non fai parte, non ti riguarda, non è legittimo che entrino “nasi” di estranei nelle questioni.
Così quelle memorie rimarranno lì dentro di te.
È servita quella esperienza vissuta?
Si, ma se potessi tornare indietro non la vorrei rivivere…..non era la mia storia…..non era l’azienda per me.
Ora il Dottore riposa in pace, Giuseppe Caprotti non si dà pace e la sorella minore ha sulle spalle un importante carico. L’altra sorella è forse la persona che ha capito più di tutti chi era il padre e com’era l’azienda ai tempi in cui anche lei era operativamente inserita.
È lei, Violetta, che può aiutare i fratelli e l’azienda a trovare un perché…..una giusta quiete per questa azienda con tanti veleni….tutti da eliminare, finalmente…..in memoria e per rispetto delle tante risorse umane che hanno contribuito al successo aziendale.
Buongiorno, con un’analisi accurata,come si usa dire, lei ha proprio colto nel segno.
È molto semplice,
Ha avuto 2 mogli e 2 famiglie,
Ha fatto un bel casino.
Come da legge del ’75 sul divorzio.
La scelta aziendale è stata strana e subottimale.
Esselunga si è indebitata parecchio per liquidare il ramo perdente ( capitale nell’impresa, non dell’impresa).
Ha speso 50 milioni di € di legali,Presidente Prof Trimarchi, per scoprire che la legittima ( Giuseppe e sorella perdenti) la doveva: tutto qui@