La solitudine dei numeri uno..

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Nella mia carriera aziendale ne ho affiancati almeno una decina provenienti da esperienze e settori diversi tra di loro. E come direttore risorse umane ne ho allevati o almeno contribuito ad allevare al successo almeno altrettanti futuri CEO. Alcuni  di loro oggi sono in giro  per il mondo.

Lavorando fianco a fianco ne ho apprezzato spesso la visione, la capacità di sintesi, l’ego pubblico ma anche la fragilità e la sensibilità privata. Se operano in multinazionali, la difficoltà di conciliare carriera e famiglia. Non meno  le esigenze dei figli che crescono. Alcuni di loro li ho accompagnati, con dispiacere,  alla porta quando era scaduto il loro tempo. Con quasi tutti ho mantenuto un buon rapporto.

Negli ultimi anni di attività sui social, a causa anche delle restrizioni della pandemia,  ho avuto modo di conoscerne altri con i quali, pur non lavorandoci insieme,  sono riuscito a costruire un rapporto di stima e di rispetto. Ciascuno di loro, seppur diversissimi gli uni dagli altri, mi ha ricordato un passaggio di un libro “la solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano  che vinse, nel 2008, il premio Strega quando racconta: “Da ragazzi in porta finisce sempre il più piccolo, che, a orecchie basse, non osa ribellarsi alla condanna, oppure il più imbranato con i piedi, di quelli che solo davanti alla porta vuota ti sparano un tiraccio sbilenco che sfiora la traversa dalla parte sbagliata…

Ma poi c’è l’eccezione: quando in porta ci va uno che lo sceglie, uno che spalle alla rete sente di aver trovato il proprio posto nel mondo, e si sfrega le mani scrutando silenziosamente il campo. L’eccezione, appunto, anzi l’anomalia. “Che sia un po’ matto?”, si chiedono i compagni. Forse, e spesso come ogni matto, il portiere è un solitario. Anzi, qualcosa di più: è un uomo solo”. Ecco più che al centravanti o al regista che la retorica aziendalista rispolvera ad ogni occasione, i CEO che ho conosciuto mi sono sembrati, continuando il paragone calcistico, dei portieri.

A volte un po’ matti per il coraggio o l’incoscienza nel prendere decisioni e nell’impostare la manovra, soli per ruolo e per il fatto che sono gli unici che giocano  più che altro con le mani in uno  sport dove gli altri dieci giocano esclusivamente con i piedi.

Ho avuto la fortuna di seguirne alcuni di loro mentre le loro intuizioni prendevano forma, coinvolgendo le loro squadre e i loro interlocutori esterni titubanti o spesso addirittura fieramente contrari. Ne ho raccolto visioni, preoccupazioni, ambizioni e coinvolgimento personale. Ricordo la metafora di uno di loro che, a fronte dei miei dubbi, cercava di spiegarmi la necessità di saltare uno strapiombo senza avere la certezza preventiva di essere in grado di superarlo. E come solo certi salti indispensabili fanno comprendere alla propria squadra di testa che tornare sui propri passi non è mai un’opzione quando una decisione è stata presa.

Ambiziosi, egocentrici, determinati. Mai però superficiali. Hanno l’esatta percezione delle conseguenze possibili. I media spesso si limitano a guardare i numeri. Mai la dimensione umana o  l’intensità della sfida. Tantomeno gli uomini che la ingaggiano. Se uno di loro cade non si interrogano. Voltano pagina blandendo il nuovo che arriva. A volte i giornalisti mancano della competenza sufficiente nel comprendere i top manager sotto il profilo umano e del progetto  nel quale cercano di ingaggiare recalcitranti collaboratori restii ad abbandonare la propria zona di confort.

Con alcuni di questi “numeri uno” ho avuto la fortuna di stabilire un rapporto, a volte a distanza, a volte frequentandoli, e poterli così conoscere un pò più a fondo. Di scambiare idee, sguardi o pensieri. Soprattutto nei passaggi topici del loro agire. O visitando, a volte insieme, i loro punti vendita. E ho potuto contemporaneamente ascoltare le comprensibili ragioni di chi ne ha subìto le decisioni e si è trovato la vita stravolta. Così come le legittime, quanto difficilmente compatibili con la strategia impostata, “pretese” dei rispettivi interlocutori.

Ho spesso trovato un modo non usuale di ascoltare e comunicare con loro, a volte attraverso il blog  costruendo un ponte anche con parte  delle loro squadre. Era in fondo il mio obiettivo in questa fase della vita. Osservare più da vicino e senza retropensieri o alla ricerca di vantaggi personali, le persone che promuovono cambiamenti.

Innanzitutto come le scelte manageriali vengono vissute o subite e come cambiano nel tempo anche chi decide di  assumerle. Soprattutto gli impatti di queste decisioni su persone, contesti organizzativi  e abitudini. Non servono nomi. Sono le vicende umane e professionali  che stanno dietro che mi hanno coinvolto e che ho raccontato e racconterò sul blog parlando delle loro azioni. E di altri che avrò sicuramente  la possibilità di incontrare. Ciascuno unico a modo suo.

In un settore caratterizzato da grandi storie imprenditoriali del passato da Caprotti a Brunelli, da Bastianello a Panizza avere la fortuna di conoscere  top manager protagonisti che hanno certamente migliorato ciò che è stato loro affidato dalle imprese che li hanno ingaggiati e scambiare con loro idee sul futuro della loro realtà e del comparto lo considero un privilegio assoluto.

C’è chi viene da esperienze vincenti  in altri Paesi a cui è stata affidata una missione affascinante quanto al limite dell’(im)possibile, chi sta  cercando di trasformare una serie di forti esperienze territoriali  in una moderna portaerei, chi tiene insieme, grazie ad indubbie capacità diplomatiche e manageriali, una vasta compagnia di  ottimi imprenditori e imprese importanti e rispettate nei loro territori e nel loro segmento di attività. E chi ha scoperto che, come Buffon, anche i portieri, da nonni, grazie alla loro esperienza possono fare ancora la loro bella figura in campo.

Una fortuna poterli incontrare anche grazie alla tecnologia e non solo. Nel mio percorso professionale ho sempre osservato, mantenendo la giusta distanza, il lavoro dei colleghi commerciali o di estrazione  marketing. Ho sempre preferito, come suggerisce un proverbio africano, chi cerca una strada se vuole qualcosa e non una scusa per non averla trovata. Spesso le aziende, soprattutto se grandi,  sono però fatte così. Trovi sempre più chi cerca scuse che chi trova strade. 

Per questo i “portieri” sono un’altra cosa. Devono prendersi sempre la responsabilità di ciò che fanno. Se veramente bravo, “deve avere anche la capacità di anticipare, di percepire, intuire i possibili sviluppi di un’azione, in modo da impostare la parata o l’uscita una frazione di secondo prima rispetto allo svolgersi dell’azione. Deve riuscire, insomma, a rubare il tempo, deve immaginare dove finirà il pallone.

Il portiere non è uno degli undici, è qualcosa di diverso. La sua sfida è insita nel ruolo, uno contro tutti, alla difesa della porta, come alla difesa della Terra Santa”. 

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