Quando penso al lavoro, a quello che ha rappresentato per me, alla differenza tra ciò che sognavo da ragazzo mentre studiavo e mi ponevo grandi obiettivi e i mille aspetti della realtà quotidiana che in seguito ho vissuto concretamente e mi hanno imposto traiettorie imprevedibili ricordo che ho sempre cercato una coerenza complessiva nelle mie scelte mai finalizzate al breve termine o all’aspetto economico. Quello semmai è venuto in seguito proprio per la decisione di procedere per step successivi coerenti.
Michele Tiraboschi ha recentemente rilanciato su Twitter una pagina a me molto cara di Alessandro Pizzorno sul senso del lavoro. Oltre l’importanza della retribuzione. La motivazione che spinge a riconoscersi in una “maglia” ad interagire con gli altri, ad assumersi responsabilità, a gratificarsi per i risultati ottenuti, a gestire la stima di capi e colleghi o a subirne decisioni incoerenti, invidie o mediocrità. A decidere anche quando è il momento di cambiare lavoro perché qualcosa ci dice che l’equilibrio (il senso) che cercavamo ci spinge altrove.
Aubrey Drake Graham, noto semplicemente come Drake è un rapper canadese che dieci anni fa con il suo pezzo “Motto” ha reso celebre la frase “si vive una volta sola” (you only live once) che forma l’acronimo YOLO da cui è nata la cosiddetta filosofia (Yolo Economy) alla base della scelta di molti giovani americani di abbandonare lavori comodi e stabili per dare una svolta alla loro vita.
Dalla generazione dei millenials in avanti nelle numerose indagini emerge la ricerca di lavori che danno maggiori soddisfazioni e che consentono di aggiungere valore e di portare un contributo specifico nel proprio lavoro. C’è una maggiore esigenza di senso e di richieste di contesti diversi da ciò che cercavano le generazioni precedenti indotte non solo dalla precarietà di una parte dell’offerta di lavoro ma anche dalle opportunità offerte dalla tecnologia e dalla influenza che la pandemia e il lockdown conseguente ha impattato sulle persone e sulle modalità di lavoro.
Questa necessità di adattamento al contesto spinge molti giovani a rischiare, rivedere le proprie priorità e desiderare di fare altro non solo sui mestieri indotti dal web ma anche tantissimo mestieri anche tradizionali che non hanno nulla a che fare con le tecnologie digitali. Da una riscoperta dei lavori dei propri genitori fino a rivendicare spazi e protagonismi anche nei lavori tradizionali in azienda.
“Costretti” allo smart working, isolati nelle loro abitazioni o preoccupati per il proprio futuro per molti la fase di lockdown è stato motivo di spinta e riflessione. Parlarne come un fenomeno sociale lontano che riguarda altri, leggerlo negli interventi dei giornalisti specializzati o nei webinar che lo affrontano è molto diverso che viverlo in prima persona. Soprattutto per chi, come il sottoscritto, appartiene ad un’altra generazione che ha le sue radici nel secolo scorso, nella certezza del welfare pubblico e nell’importanza del posto di lavoro a tempo indeterminato.
Da qui la sorpresa e la voglia di capire quando mia figlia mi ha comunicato la sua decisione di lasciare un posto fisso a tempo indeterminato per affrontare un lavoro a tempo determinato della durata di un anno in un contesto particolarmente interessante per lei.
Trentaquattro anni, da sei a Bruxelles, laureata in economia aziendale a Piacenza, due anni di studi in Germania prima a Mannheim poi a Siegen si è sempre gestita e mantenuta lavorando durante gli studi. Innamorata della Germania da sempre, ha lavorato in Italia, in Austria e in Germania.
Personalmente non l’ho mai ritenuta un “cervello in fuga” ma semplicemente una giovane con l’esigenza di fare esperienze lavorative in paesi diversi dal proprio, vivere il mondo, conoscere nuove lingue e culture differenti. Ha sempre avuto una mentalità aperta. Dalla scuola primaria fino all’università ha sempre privilegiato e vissuto contesti multiculturali aperti al confronto.
La decisione di oggi di lasciare un “posto fisso” credo nasca fondamentalmente da questa aspirazione. Quel “si vive una volta sola” non è una scelta superficiale ma è un’esigenza di cambiamento per misurarsi con un maggiore complessità sociale ma anche per realizzare una esperienza professionale in linea con le proprie aspettative.
Il posto fisso, in questo contesto, perde parte di quello che ha rappresentato per la mia generazione. Da garanzia si trasforma in un recinto che assicura una retribuzione costante ma rischia di reprimere aspettative e desideri.
Ricordo che molti anni fa, un’amica, oggi top manager in una importante multinazionale francese, lasciò una importante banca italiana per affrontare un difficile percorso all’estero ripartendo da zero. Una sfida innanzitutto con sé stessa.
Nei suoi racconti non solo i successi e le conquiste ottenute ma anche le difficoltà incontrate, la solitudine, l’isolamento che porta molti giovani a cedere e a ritornare sui propri passi. Lei ce l’ha fatta. Purtroppo leggiamo e discutiamo più volentieri i successi di chi c’è riuscito. Non le difficoltà, i ritorni indietro, le sconfitte che, purtroppo, coinvolgono la maggioranza dei giovani che ci provano.
Certo il “si vive una volta sola” della Yolo economy è una medaglia a due facce fatta di rischi e opportunità.
Come genitore non nascondo che mi piacerebbe avere mia figlia più vicino, magari in un posto “sicuro” che ne garantisca la crescita professionale nel tempo. Per me, in fondo, è sempre stato così. Però non me la sono sentita di usare la mia esperienza professionale e di vita per suggerire a mia figlia traiettorie più tradizionali. Ho ascoltato e accettato le sue esigenze. È la sua vita, il suo futuro non il mio. Io posso solo, come genitore, comprenderne le ragioni e sostenerla, per quanto è possibile, nella sua scelta.