Fuori dalle aziende e dalla scuola c’è chi si sta addestrando, seppur inconsapevolmente, per il lavoro di domani. Sempre più ragazzini maneggiano tablet, smartphone e altri sofisticati strumenti elettronici che li formano e li predispongono nell’utilizzo pratico delle nuove tecnologie, nell’accettarne interattività e vincoli e, soprattutto, li spingono a considerare il tempo e le modalità utilizzate come variabili assolutamente ininfluenti.
Restare connessi è normale e scontato. Lo si fa per un obiettivo o uno scopo. Oppure per restare in attesa di obiettivi e scopi altrui. Spazio, tempo e distanza contano sempre meno. Conta la connessione. O c’è o non c’è. L’azienda di domani, in parte, funzionerà anch’essa così. I più giovani non lo sanno ancora ma, oltre che digitali, stanno diventano compatibili.
Tecnologia sofisticata e connessa che trasmette disposizioni, tempi di esecuzione, modalità applicative. L’input, in questo contesto, può generarsi ovunque. Così come il controllo e le comunicazioni. Quindi, tre pilastri dei modelli contrattuali del 900, fordista e di quello attuale post fordista, verranno in parte (ovviamente non dappertutto) rimessi in discussione: il tempo, la distanza dalla gerarchia e dai colleghi, la postazione di lavoro.
L’orario di lavoro, la sua retribuzione, il luogo dove la relazione con il capo e con i colleghi si manifestano, la distanza e le modalità da dove vengono impartiti criteri e disposizioni di lavoro potranno essere completamente stravolti. L’azienda stabilirà i suoi nuovi confini non più dentro un perimetro fisico ben definito continuando comunque a proporre al suo interno valori, linguaggi, modalità di crescita, di comportamento e di coinvolgimento.
Pensare che, in questa situazione, possa restare inalterato o quasi il solo contenitore contrattuale mentre cambia il lavoro, le sue modalità e l’intero contesto relazionale spingerà inevitabilmente imprese e lavoratori a mettere in soffitta sia gli strumenti che i sostenitori degli stessi.
Continuerà in modo sempre più marcato il processo in corso che ridimensiona il significato stesso della tipologia del lavoro. Tempo indeterminato, tempo determinato, professional, temporary, somministrato, ecc. sono termini destinati ad usurarsi. Sarà sempre più importante per la persona il contenuto del lavoro, la sua dimensione realizzatrice, lo scopo, il suo mantenimento nel tempo, la sua evoluzione. In altri termini crescerà la consapevolezza sul valore da assegnare al proprio impegno messo in campo in rapporto alla qualità e alla quantità dello scambio con l’impresa.
D’altra parte se viene meno il significato di orario di lavoro tradizionale diventerà, al contrario, molto importante ciò che si realizza, la sua produttività, il suo contenuto e quindi il suo riconoscimento economico. Questo comporta che, oltre alla tipologia, anche il relativo inquadramento tradizionale rischierà di perdere progressivamente di significato.
È il valore del lavoro richiesto ed effettuato, i suoi scostamenti da determinati standard (tutti da ridefinire) che ne costituiranno l’elemento centrale. Sopratutto se il luogo di lavoro e el sue modalità esecutive non saranno necessariamente identificabili in modo tradizionale. Ma anche colleghi e gerarchia potranno essere in più luoghi.
Già oggi buona parte della produzione, di ciò che costituiscono le diverse componenti del prodotto finale di un’azienda, possono essere fatti fisicamente altrove. Decine di migliaia di aziende interagiscono tra di loro all’interno di filiere globali. Fino ad ora, la globalizzazione ha consentito alle imprese di decentrare, delocalizzare e integrare il lavoro di cui avevano bisogno. Queste hanno “approfittato” del costo del lavoro altrui, non hanno necessariamente ancora “stravolto” il lavoro in sé.
Siamo però entrati in una fase in cui la digitalizzazione e la tecnologia possono già consentire di farlo comprendendo anche forme di un lavoro volontario e semi gratuito che, già oggi, non viene percepito come tale. Così come forme di lavoro povero accessorio o di supporto tipico della cosiddetta gig economy.
D’altra parte non stiamo assistendo solo al declino del fordismo ma anche a quello di capitalismo industriale-finanziario, che ha dominato gli ultimi due secoli (che tuttora occupa ancora uno spazio consistente) e dall’affermarsi di una nuova oligarchia a livello planetario che quindici anni fa non esisteva caratterizzata da ingenti disponibilità finanziarie, una enorme velocità nelle transazioni e nelle trasformazioni logistiche, produttive, organizzative conseguenti.
Aziende come Google, Amazon, Alibaba, ecc. ci mostrano una velocità di sviluppo e una capacità di assorbimento e di ridisegno di business tra loro molto diversi, sconosciuti fino a poco tempo fa ma spingono inevitabilmente anche tutte le altre a abbattere i confini settoriali, integrare le attività, trasformare il lavoro necessario. Da un lato le piattaforme logistiche e digitali imporranno una sempre più accentuata automazione di molti lavori.
Dall’altro la cosiddetta “gig economy” si diffonderà sempre più acquisendo forme nuove, crescendo di peso così come crescerà la condivisione di prodotti, servizi, esperienze. Ma anche di lavori. Alcuni lavori resteranno sostanzialmente di stampo tradizionale. Altri si “frantumeranno” in più attività dove l’input del secondo sarà l’output del primo.
Gli individui si appoggeranno ad organizzazioni e/o piattaforme in grado di supportarli e di fare rete che renderanno necessario un welfare completamente diverso da quello di oggi perché dovrà rispondere a percorsi professionali inframezzati da interruzioni frequenti, mancanza di reddito e di contribuzione, anni sabbatici, periodi formativi, transizioni, allungamento della vita lavorativa ma con maggiori problemi di salute, ecc.
I contratti o la legislazione di quadro e quindi i riferimenti sociali e culturali che dovranno accompagnare questi passaggi, non perderanno di utilità ma diventeranno ancora più importanti proprio per evitare un decadimento progressivo delle regole alla base del rapporto di lavoro gestibili (forse) sul piano organizzativo ma ingestibili sul piano politico e sociale.
Le organizzazioni datoriali e dei lavoratori, potranno assumere, se lo sapranno comprendere per tempo, un ruolo fondamentale nel definire ambiti e contenuti richiesti, i nuovi luoghi del confronto, le necessarie tutele, nel saperle modificare o adattare con cadenze molto più ravvicinate di oggi, nel supportare i singoli dall’alternanza scuola lavoro fino alla pensione, nel saper costruire un welfare adeguato. Soprattutto una formazione continua di qualità.
Per tutto questo non ci sarà un’ora “X”. Dovranno coesistere sistemi misti, inclusivi possibilmente condivisi in considerazione della lunghezza della transizione necessaria e della posta in gioco. Questo presuppone una maggiore focalizzazione del rapporto di lavoro sui risultati, sulla qualità e sulla quantità della redistribuzione della produttività tra impresa e lavoro, sul coinvolgimento, sull’attualizzazione delle tutele che sono ancora più necessarie. E sempre meno sul tradizionale inquadramento professionale e sulle liturgie organizzative e giuslavoristiche ad esso collegate.
Così come sposta sempre più l’attenzione del percorso di crescita del lavoratore, dall’azienda al mercato del lavoro. Con tutto quello che questo consegue in termini di diritto soggettivo alla formazione e di politiche attive. E questa è l’unica strada percorribile dalle parti sociali alternativa all’affermarsi di forme di “totalismo” aziendale che, altrimenti si consolideranno inevitabilmente puntando a individualizzare i rapporti di lavoro all’interno di regole sempre più lasche determinate dalla debolezza del sindacato.
Non ci sarà quindi un prima e un dopo per il lavoro 4.0. Ci saranno scelte o non scelte che indicheranno o meno una direzione di marcia. E responsabilità da assumersi. Un dato però è certo. Mentre si andrà a costruire il primo passaggio nel deployement dei contratti attuali, già oggi a mio parere indispensabile, occorrerà riflettere su ciò che avviene nelle realtà più tecnologiche e innovative sul piano organizzativo e relazionale. Perché comunque vada, è lì che andremo a finire.